In Bauman, sempre lui, ricorre sovente il riferimento alla attuale sindrome consumistica come contrapposizione alla sindrome produttivistica, retaggio di anni passati in cui la durata di un oggetto era proporzionale al suo intrinseco valore. Oggi, a quanto pare, il valore di un oggetto è dato dalla sua transitorietà, cioè dalla rapidità con cui passa di moda, va incontro a usura (un’usura anche solo di tipo percettivo, veicolata dai messaggi che impartiscono, quotidianamente, i mass-media).
Una società consumistica, per definizione, si basa sul consumo: non è una banale allitterazione, questa, ma un dato di fatto essenziale per comprendere che essa si tiene in piedi solo se il consumo è dilatato all’infinito. Un’economia consumistica, dice ancora Bauman, è basata “sull’inganno, sull’esagerazione e sullo spreco; inganno , esagerazione e spreco non sono segnali del malfunzionamento di tale economia, ma garanzie della sua salute”. Obiettare che la strategia è perdente, perché nessun fenomeno antropologico può espandersi all’infinito senza causare danni collaterali all’intero sistema non sembra interferire sul processo stesso: consiglio al proposito di leggere “L’economia della ciambella”, di Kate Raworth. In linea di principio, l’economia consumistica non può crescere indefinitamente perché a) le risorse sono limitate e gli scarti di tale economia inquinano il mondo in cui viviamo e b) perché le risorse disponibili non sono distribuite equamente, e questo crea diversi problemi di accaparramento delle risorse disponibili che per adesso si limitano alla guardia dei confini e delle acque nazionali, ma che sono destinati col tempo a schiantare l’intero consorzio umano (o quantomeno a modificarne drasticamente gli equilibri, ma in senso negativo).
Parlo di questa dicotomia tra sindrome produttivistica e sindrome consumistica perché mi sembra di individuare alcuni meccanismi che si tagliano perfettamente all’ambito sanitario pubblico. Per anni, nel nostro paese, abbiamo cercato di erogare il bene primario “salute” cercando di renderla duratura e limitando gli interventi alle situazioni di effettivo bisogno: era importante il reale valore dell’atto medico, non il numero di atti medici erogati nell’unità di tempo. Da quando la sindrome consumistica, pilotata dalla cattiva politica, si è impossessata della gestione sanitaria, abbiamo assistito al moltiplicarsi irrefrenabile delle prestazioni mediche: è da decenni che si parla, nel mio ambito, di inappropriatezza prescrittiva come elemento di degenerazione del sistema sanitario. E, siccome stiamo parlando di sindrome consumistica, ci rendiamo inevitabilmente conto che questo eccesso di prestazioni provoca la produzione di una enorme quantità di scarti: i danni iatrogeni, cioè provocati da esami inutili e terapie non prive di effetti collaterali. Nel bellissimo libro di Ottavio Davini “Il prezzo della salute” (Nutrimenti editore, 2013), è chiaramente descritta la situazione attuale: nei paesi più avanzati il contatto individuo-sistema sanitario è talmente esasperato che le conseguenze a breve, medio e lungo termine, e non essendo la medicina ancora una scienza esatta, incrementano paradossalmente il rischio di danni, appunto, iatrogeni (riducendo pertanto l’aspettativa di vita). Più il paziente sano, o presunto tale, ha contatti con il sistema che deve curarlo, più aumenta il rischio di prestazioni inutili/dannose. È semplice statistica, non arrovellatevi troppo su questo punto.
La sindrome consumistica esalta il consumo di risorse (più esami e più interventi chirurgici, nell’immaginario del politico di turno, in un’ottica distorta da catena di montaggio, da fabbrica sovietica del ‘900, diventano un biglietto da visita per le successive elezioni) e, al tempo stesso, ingolfa il sistema (che è complesso, dunque a forte rischio di ingolfamento perché le risorse non sono adeguate alla crescita), provoca la creazione di un gran numero di scarti e determina lo squilibrio nella distribuzione dei servizi. Insomma, esattamente quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni.
Mi sembra un punto su cui la politica buona, o ciò che ne è rimasto, dovrebbe interrogarsi seriamente.