Sono arrivato circa a pagina 200 del libro “Stradario aggiornato dei miei baci” di Daniela Ranieri. Opera (consigliata da un caro amico) interessante, scritta con una prosa a tratti coraggiosa, fuori dal tempo. Forse un po’ troppo concentrata sul proprio ombelico: ma d’altronde cos’è che fanno gli scrittori autentici, normalmente, se non contemplarselo in continuazione?
Il problema, che mi tocca non come lettore ma per il mestiere che faccio, è il livore (non so come altro chiamarlo, giuro) rivolto alla figura del medico. Una cascata senza fine di giudizi impietosi, generalizzazioni umilianti e offese ecumeniche verso i medici, che nel romanzo sono mostrati come superficiali, ignoranti, narcisisti, incapaci di qualsiasi forma di empatia, inetti alla cura dei pazienti, attaccati al vil denaro. Insomma, quanto di peggio si possa immaginare. Rinnovando la domanda atroce che mi pongo da tempo: come è potuto accadere che la progressione della scienza medica sia andata di pari passo con la perdita di autorevolezza e di prestigio sociale dei medici?
Come sempre, quando mi imbatto in giudizi così trancianti, ho un solo desiderio: invitare la signora in questione nel mio reparto. Farla entrare con me in ospedale, alle sette e trenta del mattino, quando il reparto è ancora vuoto e illuminato dalle luci artificiali della notte perenne nella quale vivono da sempre i radiologi di tutto il mondo, offrirle un caffè e un camice pulito e tenerla accanto mentre referto esami, mi occupo della formazione degli specializzandi (che la cureranno quando sarà vecchia, ignari del veleno di cui sono intrise le sue pagine), rispondo alle mail accumulate, scrivo relazioni, calcolo carichi di lavoro e tempi di attesa, discuto con la Direzione dei centomila problemi da risolvere, imposto gli esami con i tecnici, parlo con i pazienti e i loro parenti, faccio favori estemporanei a colleghi di altri reparti, che altrimenti non potrebbero dimetterli perché le liste di lavoro sono sempre piene da scoppiare, cerco di risolvere i dubbi diagnostici dei miei collaboratori, e rispondo al telefono. Rispondo-a-centinaia-di-telefonate-al-giorno, cosa che la scrittrice mostra di ignorare, e ogni giorno maledico l’inventore di quel maledetto aggeggio che ci ha stravolto la vita ed è capace di crearmi problemi sempre nuovi e multiformi.
Vorrei che lei mi fosse accanto fino alle 18, mezz’ora più mezz’ora meno, per percepire l’entità dello sconforto, a volte della costernazione, che a volte mi leva il fiato perché negli ospedali italiani la lotta per cambiare le cose è improba e destinata a un’inesorabile sconfitta, quale che sia l’impegno profuso. Vorrei che mi sedesse accanto per tutto il tempo, per realizzare senza mezzi termini l’entità della stanchezza che prova un medico dopo aver assorbito la dose quotidiana di sofferenza altrui, aver risolto problemi burocratici senza capo né coda, essersi scontrato con assurdi problemi di programmazione che non dipendono da lui, e aver fatto i conti con la propria inadeguatezza: perché i medici sbagliano, come no, sbagliano come tutti. Solo che poi si svegliano in piena notte chiedendosi come avrebbero potuto evitare quell’errore, elaborare una strategia più efficace, e le facce di quei pazienti finiranno inesorabilmente nel pantheon personale di fallimenti che li tormenteranno fino alla fine dei propri giorni.
Questo vorrei, oltre a chiedere se la signora ritenga più vantaggioso tornare ai tempi in cui i denti li cavava il barbiere, le fratture le curava il tiraossi (oggi, con grande sollievo di chi evoca le virtù della medicina cosiddetta alternativa, istituzionalizzato come “osteopata”) e la terapia standard per tutto, dall’ipertensione al cancro del polmone, era il salasso. Perché è facile puntare il ditino e ergersi a giudici di un’intera categoria di professionisti perché si è certi che al prossimo infarto qualcuno, in piena notte, ti dilaterà le coronarie ostruite dal troppo grasso ingurgitato e dal fumo delle mila sigarette fumate, in barba a ogni strategia di prevenzione primaria; o che al prossimo incidente stradale qualcuno verrà a estrarti dall’abitacolo contorto, ti stabilizzerà le funzioni vitali, ti farà una TC in urgenza e poi ti porterà in sala operatoria, sempre in piena notte, per salvarti la buccia e prepararsi a subire processi mediatici e giudiziari se qualcosa dovesse andare storto.
Quando vi lamentate che i medici scappano dagli ospedali pensate a questo, pensate a libri come quello di cui vi sto parlando, a stipendi miseri dopo 10 anni di studio matto e disperatissimo, a contratti collettivi nazionali non rinnovati per dieci lunghi anni, ad assicurazioni obbligatorie per la colpa grave, ad articoli di giornale che puntano il dito sul singolo episodio di “malasanità” (che bel suono ha questa parola, vero? Sa di rivalsa sociale, di lotta per i diritti umani, di giustizia divina applicata al quotidiano) e ignorano gli altri 999 casi su mille in cui tutto fila bene e il paziente esce dall’ospedale con le sue gambe, risanato.
Ma a disturbarmi di più non è il singolo parere personale, quello per cui lo stesso medico è percepito come un angelo da un paziente e un pericoloso criminale da un altro, ma la generalizzazione strumentale del giudizio che investe non il singolo professionista (verso il quale, in base all’esperienza personale, il giudizio negativo può anche essere legittimo) ma un’intera categoria: senza la quale, credetemi, la vita di tutti sarebbe molto più dura. Come se io dicessi che, siccome la signora in questione è stata profondamente offensiva nei confronti del lavoro che faccio, tutta la categoria dei giornalisti e dei giornalisti-scrittori è esecrabile in toto, senza distinzioni, e la considerassi una massa di pennivendoli intellettualmente disonesti e pronti a vendersi al miglior offerente politico, bravi a cavalcare la battaglia ideologica più di moda del momento. Ma non lo penso, vero? Sarebbero generalizzazioni infantili, da alunno di scuola dell’infanzia. Da bambino livoroso.
Insomma, sento spesso sproloquiare sulla mancanza di empatia dei medici. Ma nessuno si interroga mai sulla mancanza di empatia che il resto del mondo ha nei confronti dei medici stessi e, per logica estensione, delle professioni sanitarie. Provateci, qualche volta, a mettervi nei nostri panni, a comprendere i motivi per cui qualcuno di noi ancora resiste strenuamente nelle strutture pubbliche e non è già passato a guadagnare quattro volte tanto nel privato, con meno rogne e responsabilità.
Provateci. L’empatia non è una corrente unidirezionale. Magari la prossima volta ci penserete due volte prima di sputare veleno così, a caso, dove capita.