L’importante è chi il sogno ce l’ha più grande

di | 22 Ottobre 2017

E’ una mattina fredda e umida, qui alla città del fiume.

Parcheggio con facilità, è sabato mattina, scendo dall’auto e l’aria è amara e ferrosa: come in tutta la pianura padana, d’altronde, visto il tempaccio di queste ultime settimane, la pioggia che come al solito latita e la nebbia che ingloba le microparticelle di schifezza che poi ci tocca respirare. Ma non è una mattina per essere tristi, questa.

Nella piazza centrale ci sono già alcune donne. In un piccolo capannello, strette nei loro cappottini autunnali, parlano tra loro. Hanno sorrisi timidi e un pò impauriti mentre le altre, le organizzatrici, stanno mettendo sui banchetti di legno tovaglie di carta rosa acceso. Lei, la presidentessa, mi viene incontro con un altro tipo di sorriso: il suo è deciso, limpido come i suoi occhi. Mi stringe la mano, dice preoccupata che il camper non è ancora arrivato. È già tutta protesa verso la mattinata che deve trascorrere.

Perché oggi, dicevo, non è una giornata qualsiasi. Oggi una parte del la Breast Unit dell’Ospedale del Fiume, chirurghi e radiologi, sono con l’Andos locale a fare campagna di prevenzione contro il tumore al seno. In un camper prestato per l’occasione, il chirurgo visiterà le paziente e i radiologi completeranno la visita con un’ecografia. Un esperimento che almeno qui, finora, non è mai stato tentato.

Alla fine, dopo qualche telefonata, il camper arriva. Ma non è un camper qualsiasi, no: è un Airstream. L’Airstream, per chi non ne avesse mai visto uno, è un salto negli anni ’50, ai tempi in cui Gagarin fu messo in orbita nel suo Sputnik. E’ Sean Connery che, nei panni di 007, combatte contro il cattivo della Spectre nascosto al suo interno. L’Airstream è il futuro così come ce lo siamo immaginato in quegli anni, quando fu concepito. Mentre adesso è il passato che avremmo voluto avere, e che invece non abbiamo avuto.

Ma questo Airstream, in particolare, ne ha viste di cotte e di crude. La moquette è usurata, gli interni pure. L’aria è viziata, con un lieve sentore di muffa che abbiamo combattuto con un emanatore di fragranze. Il bagno ha mobili scheggiati. Ma anche messo così male ha un fascino potente, fuori dal tempo. Il chirurgo mi guarda e dice: Immaginati questo coso parcheggiato su una scogliera a picco sul mare a Creta. Capisco perfettamente cosa vuole dire.

Poi cominciamo: il capannello di persone in attesa, là fuori, adesso è parecchio più consistente e alla fine della mattina avremo in lista novanta donne. Le pazienti salgono sull’Airstream una alla volta, con lo sguardo preoccupato ,dopo che le finestre sono state oscurate. L’infermiera le invita a scoprire il torace, la stufetta di fortuna garantisce un minimo di calore all’interno dell’abitacolo, e il tecnico della ditta che ci ha fornito l’ecografo ha già accesso l’apparecchiatura. Noi siamo in camice bianco, lui non se la sente di sfidare il freddo e sul camice ha infilato un giubbotto grigio ferro in linea con la sua aria austera. Il chirurgo visita le signore, la maggioranza sono giovani, e quando ci sono dei dubbi il radiologo completa la valutazione con l’ecografia.

Andiamo avanti così per un bel pò, dentro l’Airstream si respira un’aria rilassata anche se ogni tanto qualcuna delle donne ha un problema all’apparenza serio, che meriterà ben altri approfondimenti diagnostici. C’è l’aria buona di persone che collaborano bene tra loro e sanno parlare con le pazienti preoccupate. C’è l’aria di persone che hanno a cuore il loro mestiere.

A metà mattina facciamo pausa con i cornetti che ci ha portato l’oncologa gentile. Una signora entra nell’Airstream per sbaglio, ci vede mangiare e sorbire il caffè, ride di gusto e dice: Non preoccupatevi, fate pausa con calma, noi aspettiamo fuori.

Fuori, nella piazza, fa freddo e io rimpiango di essere uscito di casa vestito come se fosse fine agosto. Le organizzatrici dell’Andos sono infaticabili, accolgono le donne, appuntano i loro nomi, spiegano loro il meccanismo della mattinata, le consolano se sono preoccupate. Regalano a tutti i passanti le spille rosa dell’associazione e sembrano non sentire freddo: sono animate dallo spirito incrollabile di chi ha superato il guaio più grosso che possa accadere, o sta ancora lottando per superarlo.

Alla fine anche l’ultima ragazza, rossa come un’irlandese, esce dall’Airstream. È il momento di tirare le fila della giornata, fare un bilancio dell’esperienza. Invece non è un bilancio, quello che facciamo tutti insieme, ma una serie di progetti per il futuro. Dove ripetere l’evento, come, con quali possibili altre modalità. Pensiamo a una serata di beneficenza con un gruppo di colleghi che suonano il blues, a incontri con la cittadinanza per spiegare a tutti cosa stiamo mettendo in piedi, cosa sta facendo l’Azienda per mettersi in pari sul versante senologico. Perché alle volte è vero: è parlando delle idee per il futuro che loro si concretizzano.

Mentre ritorno alla macchina parcheggiata poco lontano, battendo i denti dal freddo, non posso non ripensare con ammirazione alla forza di queste donne. Al loro carattere indomito. Al modo con cui hanno affrontato il dramma, ne sono venute fuori e adesso hanno deciso di mettersi al servizio di altre pazienti che dovranno vivere i loro stessi incubi. Alla scelta coraggiosa di dedicare il proprio tempo libero agli altri, invece che al proprio ombelico.

Così, in auto attacco la cintura di sicurezza, giro la chiave dell’accensione e penso che si, anche per oggi l’asteroide può attendere.


La canzone della clip è “Il grande sogno”, di Roberto Vecchioni, tratto dalla omonima raccolta del 1984. Avessi saputo, in quell’anno memorabile, che ne avrei capito il senso solo più di trent’anni dopo, beh, non ci avrei creduto. Nella foto panoramica, i radiologi e il chirurgo. Nel selfie, io e le mie due splendide senologhe (incredibilmente, sono io l’elemento decorativo della giornata).

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