È ora di mensa. Sono di turno in RM e ho i minuti contati: quelli tra la fine dell’esame in corso e l’inizio del prossimo (non fate domande sceme, se si hanno due turni attaccati di sei ore e il turno del pomeriggio è in pronto soccorso, l’alternativa a ingozzarsi in cinque minuti è stramazzare sulle barelle dell’area rossa alle cinque del pomeriggio, in piena crisi ipoglicemica).
Insomma, sto per entrare in mensa quando una signora mi placca (un secondo dopo averle sentito dire al marito, tutta stizzita: Ah, guarda, non vedo l’ora di andar via da Treviso).
La signora mi chiede a bruciapelo: Lei è un medico? (Ma come stramaledizione fanno ad accorgersene? Hanno un sesto senso? Insomma, sono vestito in borghese, oggi non ho nemmeno ai piedi gli zoccoli bianchi, ce l’ho scritto in fronte che sono un medico?). Mio malgrado annuisco, e a lei non sembra vero. Un nanosecondo di tempo di latenza e la signora parte con la cronistoria dei suoi guai: la quale, con sovrano sforzo di sintesi, può essere sintetizzata come segue. C’è una partoriente a cui recar visita: ma il reparto di ostetricia, come tutti i reparti normali degli ospedali normali di questo mondo, ha orari di ricevimento ben precisi. Disdetta vuole che la sera prima una congiunzione astrale particolarmente negativa, espressa a quanto pare da ritardi biblici dei treni e incidenti a catena sull’autostrada con decinaia e decinaia di morti e feriti, avesse impedito alla signora e a suo marito di arrivare in reparto all’orario giusto. Insomma, la vetusta coppia di coniugi ha bussato alle porte del reparto alle 21.30 e l’infermiera di turno, ovviamente, deve averli guardati un po’ male e congedati senza tutta la solerte cortesia che solitamente su usa da queste parti.
Il problema è che la signora, e per estensione anche il taciturno marito, non vorrebbero aspettare le 19.30 per il normale orario di visita ai pazienti, ma la puerpera vorrebbero vederla proprio ora; solo che la caposala a quanto pare è una grandissima stronza perché fa rispettare gli orari nazisti stabiliti dal suo primario, il primario è stronzo uguale perché si rifiuta di riceverli, come se fosse Dio in terra (magari in quel momento sta smadonnando in sala operatoria, il primario, ma che volete che sia un difficile intervento chirurgico a fronte dell’urgenza della signora che ho di fronte) e il direttore sanitario è il più stronzo di tutti perché lei lo ha cercato allo scopo di denunciare questo vergognoso disservizio e lui ha puranche avuto il coraggio di negarsi (magari è infognato in una riunione importantissima quanto interminabile, il nostro direttore sanitario, ma volete mettete l’urgenza della signora di vedere la puerpera?). Chiosa finale: Insomma, che devo fare, chiamare il 113?
Io, che ingenuamente ancora non capisco il morivo di tanta acredine, cerco di arginare il fiume in piena di parole spiegandole che non lavoro in quel reparto e dunque non posso fare molto per aiutarla se non indicare dov’è l’ascensore giusto; ma non ci riesco. E lei affonda: Lavora qui, no, perché non chiama il primario e dice che diamo amici suoi?
Io ho di mio pochi pregi, ma la pazienza è uno di quelli. Conto fino a dieci, ribadisco che non posso far nulla per aiutarla a saltare la fila, perché è di questo che in buona sostanza stiamo parlando, e guadagno la mensa. Dove mangerò non in dieci minuti ma in cinque.
In questo aneddoto, secondo me, si nasconde il nostro dramma attuale e passato di italiani: in tutte le sue possibili declinazioni. Il tentativo di prevaricazione (voglio tutto e lo voglio adesso), il menefreghismo totale (blocco un medico che sta andando in mensa senza pormi il problema che magari ha solo dieci minuti di pausa tra un turno e l’altro per un complessivo quotidiano di 12 ore di lavoro quasi continuativo), l’insolenza mista a futile presunzione (la caposala è stronza, il primario è stronzo, il direttore sanitario è stronzo, tutti sono stronzi e io sono la vittima di un sistema di stronzi), il menefreghismo delle regole (chi è quel nazista che permette orari del genere in un reparto, io me ne fotto degli orari), la formula minacciosa e/o ricattatoria (se non mi date quello che voglio chiamo i carabinieri), il tentativo obliquo di saltare la fila con la scusa di essere amico di qualcuno (perché non chiama il primario e dice che siamo amici suoi?).
Forse avrei dovuto essere meno paziente e dire alla signora tutto quello che sto raccontando a voi adesso: ma avevo fretta, il marito sembrava persino mortificato dalla maleducazione plateale della moglie (senza avere il coraggio di mollarle un ceffone e portarsela via), e poi l’unico effetto della replica, in situazioni del genere, è ingaggiare un corpo a corpo verbale che non si sa dove può portare. Senza nessun esito, peraltro: perché le pretese della donna, pretese assurde, accampate con inutile protervia, espresse in tono mezzo indignato e mezzo ricattatorio, sono espressione del nostro DNA di italiani e delle cause dei nostri disastri nazionali.
Avrei dovuto dirle: la prossima volta si muova per tempo e si informi preventivamente se in strada ci sono incidenti o se il treno è in ritardo; o forse avrei dovuto dire che i carabinieri li avrei chiamati io, se non l’avesse cessata immediatamente con le offese a tutto il personale ospedaliero che nel mentre continuavano a eruttare dalla sua bocca. Ma sarebbe stato inutile: come dice il mio amico Matteo, in questi casi lo spread è culturale. Quello economico se lo giostrano i banchieri, con nostro scarso gaudio; quello culturale è solo colpa nostra, e cercare di ridurlo è una gara persa in partenza.
N.d.A. I corsivi si riferiscono alla frasi pronunciate dalla signora e riportate pari pari sul post.