Sara Bareilles, nella canzone che vale anche da titolo al post, dice al suo lui che non ha intenzione di dedicargli una canzone d’amore solo perché lui ha voglia che lei la scriva (la quale, peraltro, sarebbe già di per sé una nobile ragione: se una donna avesse scritto a me una canzone d’amore, magari bella e triste come questa, mi sarei sdilinquito all’istante).
Lo confesso candidamente: io, nella vita, ho scritto un profluvio di canzoni, e la maggior parte erano canzoni d’amore. Un giorno ho smesso: un po’ perché ho cominciato a lavorare sul serio, e se uno vuol scrivere canzoni, belle o brutte che siano, con il suo strumento musicale deve dormirci insieme e non tenerlo riposto in soffitta aspettando tempi migliori; e un po’ perché a un certo punto devo aver pensato che, insomma, con tutti i casini che abbiamo nel mondo l’amore non può certo essere l’ispirazione per scrivere canzoni. La canzone deve essere protesta sociale! La scusa per dire pane al pane e vino al vino!
Poi, qualche giorno fa, ho fatto un esame radiologico a un musicista (uno serio, mica come me) e abbiamo parlato a lungo di ispirazione musicale. Così, dopo la chiacchierata, sono rimasto qualche tempo a rimuginare sulla faccenda aspettando di avere le idee più chiare.
Oggi posso dirvi che il musicista aveva ragione: è proprio in virtù dei tempi di merda che viviamo che val la pena di scrivere e cantare canzoni d’amore. Non importa se sguaiate, strappalacrime, strappamutande, superficiali, fatte a rime amore-cuore, disperate, gioiose, rap o pop o rock, anche hard rock, che parlino del più grande spettacolo dopo il big bang o di ritornare a casa dopo un lungo viaggio, insomma, qualunque sia il loro timbro sentimentale va benissimo scriverle, suonarle e cantarle fino allo sfinimento. Perché ci hanno tolto tutto, ma quella speranza lì non ce la possono togliere: e allora tutti a cantare d’amore, e che gli altri, quelli cattivi, si fottano pure.