E’ un corridoio sotterraneo, quello che collega il padiglione dove è ubicato il mio reparto a quello della terapia intensiva neurochirurgica. Un corridoio lungo, buio e freddo. A un certo punto la strada si biforca: a destra si va nel padiglione neurochirurgico; a sinistra, paradossale metafora, si imbocca l’ingresso dell’obitorio. Mentre lo percorro mi viene in mente che se fossi un barbone queste svolte ad angolo retto potrebbero fornirmi un riparo per la notte: ma è il pensiero di un attimo. Il pensiero fisso invece è il motivo della chiamata in consulenza: ecografia per potenziale donatore di organi. Traduzione: un paziente è morto, lo teniamo in vita solo perché doni i suoi organi a un’altra persona.
Quando arrivo in terapia intensiva neurochirurgica lo spettacolo è desolante. Ci sono molti letti, e sono tutti pieni. Poveri pazienti rannicchiati su sé stessi, la testa rapata e solcata da cicatrici che sembrano infinite. Hanno tutti gli occhi semichiusi, non so se dormano e se siano in preda a dolori atroci mezzo sedati dagli analgesici.
Il medico rianimatore è gentile, mi accoglie con un sorriso che già di per sé è un mezzo miracolo. Mi chiede: Come va?
E io che devo rispondergli? Va bene per forza. In un luogo del genere tutto va bene, tranne essere l’ospite.
Mentre l’ecografo si accende il collega mi mostra la tac toracica di un altro paziente. Mi chiede cosa penso del suo torace: c’è acqua e c’è aria libera, dunque non va benissimo. Ma il peggio non è quello: il peggio è l’incidente di moto che lo ha condotto lì, e che lo ha già reso irreparabilmente tetraplegico.
Poi l’infermiera, anche lei incredibilmente sorridente, mi informa che l’ecografo è pronto e scopre l’addome della potenziale donatrice di organi. Che, al di là di questa fredda definizione medica, è una donna. Abbastanza giovane e persino bella, nonostante i tubi che le spuntano come rami secchi da tutte le parti del corpo. Sembra che stia solo dormendo. Che stia sognando qualcosa di rasserenante, mentre il macchinario le pompa aria nei polmoni con stantuffi regolari e implacabili. Mentre eseguo l’ecografia non riesco a non guardarle il
viso: ho quasi la sensazione che se allungassi una mano, e le carezzassi una guancia, la signora potrebbe svegliarsi e sorridermi meravigliata di trovarsi seminuda davanti a uno sconosciuto in camice bianco.
Ma non ne ho il coraggio. Finisco il mio lavoro, scrivo il referto e me ne torno in pronto soccorso. Questa volta non voglio percorrere quel terribile corridoio sotterraneo: farò la strada esterna, lungo il viale alberato. Anche se la primavera tarda ad arrivare, gli alberi sono spogli e l’unico privilegio del cambio incipiente di stagione sono le prime, maledette zanzare.
Una volta Rod Laver, l’indimenticabile tennista australiano che vinse due volte il Grande Slam negli anni ‘60, in un’intervista disse: Mi sento umile, quando batto un uomo.
Io non ho battuto nessuno, anzi. Ma mi sento umile lo stesso, quando faccio l’ecografia a un paziente che già non c’è più, ma che noi medici tratteniamo con tutte le nostre forze al di qua di quella linea nera da cui, dicono, non si fa più ritorno.
Come se stringessimo nella mano il filo di un aquilone, e fuori ci fosse un ventaccio da paura.