La foto che introduce il post, e che vi consiglio di leggere cliccandoci sopra, è un jpeg dell’articolo di fondo del numero 7-2006 di Disfagia.
L’articolo introduce il problema di cui oggi avrei intenzione di parlare, ossia: in quanto radiologi, come bisogna comunicare al Paziente un reperto patologico? In modo chiaro e con un linguaggio scientifico che sia intelligibile a chi ha richiesto la nostra consulenza, anche a rischio che il Paziente si terrorizzi per la spietatezza della nostra terminologia, o in modo oscuro e poco intelligibile allo scopo un po’ di proteggerlo dalle sue stesse reazioni e un po’, diciamolo pure senza vergogna, di pararci il sedere?
In questo ambito, per esempio, la definizione “mali moris” è straordinaria perché, anche in qualità di sintesi del nostro processo mentale clinico-diagnostico, si pone al di fuori di qualsiasi insieme di elementi della refertazione. Un reperto mali moris, per definizione, non è quantificabile e non gode nemmeno dell’immunità parlamentare che spetta alle altre terminologie più o meno oscure che tentano di qualificare ciò che il radiologo osserva (lesione discariocinetica, processo eteroformativo e analoghe amenità).
Quando si usa mali moris, riferito a un reperto radiologico, non si sta descrivendo o quantificando il problema: si sta dicendo, nella terminologia astrusa che è propria di certa antica Radiologia, che non importa quale sia il problema e di che grado la sua gravità. Ciò che emerge, oltre il tentativo di caratterizzarlo, è solo che quel problema ammazzerà il paziente ma che non sarà di certo il radiologo a prendersi la briga di avvisarlo di ciò. Mali moris, in definitiva, non esprime un concetto radiologico e (di conseguenza) medico: è piuttosto una sentenza inappellabile non sulla malattia, ma sul paziente stesso.
E allora? La soluzione, sulla carta, è semplice: il referto radiologico ha la stessa valenza di qualunque altra consulenza vergata su foglio di carta (o supporto informatico, o quel diavolo che volete voi) e come tale andrebbe trattata. Quando il paziente esegue un’indagine radiologica, di qualunque tipo, è perché un clinico ha ritenuto che quell’indagine potesse condurre a conferma del suo sospetto diagnostico e/o influenzare le sue scelte terapeutiche. Il radiologo riceve un quesito specifico, espresso da una richiesta compilata con terminologia tecnica (si spera, anche se spesso vengono dubbi sulla liceità della laurea del diretto interlocutore: non vorrei mai dover leggere, come a volte capita su certe richieste, ecografia addome per mal di pancia), e deve fornire una risposta precisa: mali moris, per esempio, non lo è. Una risposta precisa è quella fornita con terminologia altrettanto tecnica, usando parametri condivisi e riconosciuti internazionalmente. Che il paziente, per definizione, e nonostante i casini che può combinare improvvisandosi segugio su internet, non può comprendere fino in fondo.
Insomma, io è anni che sostengo una posizione ferma: il referto radiologico non è per il paziente ma per il medico che ha proposto l’esame. E allora le possibilità in pratica sono due, non altre: o il referto (come accade in Scandinavia, per dire) finisce direttamente al medico proponente, e il compito di informare correttamente il paziente spetterà a lui, o finisce nelle mani paziente stesso, come in Italia, e allora cominciano i guai. Però in teoria esisterebbe anche una terza possibilità: il referto viene emanato dal Reparto di Radiologia e finisce nelle mani del paziente. Il paziente ha il diritto di chiedere lumi al radiologo che ha refertato l’esame? Certo che si, in qualità di consulente: equivarrebbe a porre sugli altari la Radiologia Clinica e a ripristinare quel rapprto medico-paziente del quale tutti i radiologi che contano lamentano la scarsa qualità.
Però, poiché c’è sempre un però, il radiologo dovrebbe avere spazi e tempi dedicati alla bisogna: perché mica si può interrompere dieci volte il lavoro e discutere con pazienti preoccupati in mezzo ai corridoi di reparto. Ma spazi e tempi dedicati terrorizzano a morte primari e amministratori: perché sembra che quel tempo sia perduto e non impiegato correttamente e perché, diciamocelo pure chiaramente, pare che l’unico indicatore del buon servizio in Radiologia oggi come oggi siano la brevità delle liste di attesa e la quantità di prestazioni erogate. Che quelle prestazioni siano qualitativamente indecenti non frega niente a nessuno, e altrettanto dicasi del rapporto radiologo-paziente.
Insomma, il cane si morde la coda: e se la morderà sempre di più perché di questi tempi non c’è altro da mangiare. Per cui buone indagini solitarie su Internet, e che il ciel vi aiuti.