Lo so che sembra un off topic, ma in questo blog abbiamo parlato spesso di vita e di morte, e di come tenere le giuste distanze da quelle due universali millantatrici. Ed è per questo motivo che mi secca ascoltare per radio e in tivù, o leggere sui giornali, le parole “tragedia”, “cordoglio” e “dolore” riferite a Monicelli.
Il quale, al di là di tutto, ha solo fatto il contrario di quelle che generalmente, in analoghe circostanze, viene fatto dalle nostre parti: non si è fatto imbalsamare, per poi mettere la firma con mano sbilenca sotto le regie di altri; non ha schiaffato in prima pagina le sue sofferenze private; non ha preteso (e ottenuto) conforti religiosi dopo una vita intera di cinico scetticismo. Semplicemente, volando giù dal quinto piano ha dimostrato inoppugnabilmente l’esistenza dell‘anima: quella che non si piega alle miserie fisiche e morali della vita, e a un certo punto ha il diritto sacrosanto di non più riconoscersi in quel corpo che ha abitato per una vita intera.
Per volare giù dal quinto piano ci vuole coraggio, o somma incoscienza. Ma per farlo a 95 anni, scusatemi, ci vogliono i coglioni. Ecco perché son già stufo di rievocazioni televisive dedicate al Maestro (termine onorifico che in Italia viene inevitabilmente conferito a chi è troppo vecchio e rincoglionito per inventare qualcosa di nuovo, ma troppo giovane per tirare gli ultimi e togliersi dalle balle). Credo che Monicelli, morendo in quel modo, ci abbia fornito un’ultima lezione di vita, e di amore per la vita.
Con un gesto assoluto, definitivo: che tronca le gambe anche a chi, in questo misero periodo storico, crede di aver diritto in ogni circostanza, e a qualunque costo, a un contraddittorio in cui venga espresso anche il punto di vista della controparte. Insomma, credo che la controparte dovrà accontentarsi di non vederlo seppellito in terra consacrata: soddisfazione della quale, immagino, lui avrebbe riso a crepapelle.