Metafisica della Dipartita

di | 14 Luglio 2011

Mi è difficile scriverlo, questo post. Perché è stata una settimana dura: di quelle che appoggi la sonda ecografica sulla pancia di un tale e già sai che non c’è nulla da fare. Poi lo porti anche in Tac, per carità, perché vuoi essere accurato, ma non cambia neanche una virgola di quello che avevi pensato all’inizio, poggiando quella stramaledetta sonda sulla pancia inconsapevole del tale.

E l’argomento ha delle implicazioni. Perché, perdio, come glielo dici a uno: guarda che non c’è niente da fare? E perché per un tale non c’è nulla da fare mentre per altri sei o sette certo, che c’è qualcosa da fare, e almeno la partita loro se la potranno giocare? Magari la perderanno, come alla fine tutti la perdiamo, però se la possono giocare. La differenza non è sottile, non è superficiale: è una delle tante manifestazioni dell’ingiustizia naturale di questo pianeta, di cui spero un giorno potremo chiedere cagione a Qualcuno.

Perché alla base di tutto, ma proprio di tutto, c’è un minimo comun denominatore: abbiamo tutti, e dico tutti, una paura fottuta di morire. Ce l’abbiamo noi che crediamo a poco e niente, ma ce l’hanno anche quelli che credono a tutto, e per i quali la morte dovrebbe rappresentare la certezza del ritorno a casa. E allora succede che non vogliamo morire, proprio non vogliamo. Qualcuno perché ha ancora un mucchio di cose da fare. Qualcun altro perché vorrebbe riposarsi delle cose che ha fatto. Qualcun altro ancora perché è troppo giovane, o perché nessuno è così vecchio da credere di non essere più giovane, e resta attaccato alla vita a tutti i costi, spezzandosi le unghie e consumandosi i denti nel vano tentativo. O, ancora, perché hai dei figli e non vuoi abbandonarli: pur sapendo che i figli in qualche modo sopravviveranno, come sopravvivono tutti, e avranno la loro vita a prescindere da te e dalla tua fottuta morte. Oppure, e finisco, perché morire in quel modo lì è proprio stupido: sbattendo in moto a centocinquanta all’ora contro un Suv che ti taglia la strada, o disarcionato dalla bicicletta da un coglione ubriaco in moto, o investito da un ottantenne depresso mentre attraversi le strisce pedonali; o, semplicemente, perché sei troppo giovane per permettere che un radiologo di passaggio ti appoggi la sonda sulla pancia e trovi quello che non ti aspettavi e che lui non avrebbe mai dovuto trovare. Ossia: un secondo prima sei vivo, hai progetti per l’eternità, e un secondo dopo sei morto, devi fare testamento, salutare gli amici e far pace con i nemici.

Ora, non è che tutti siamo bravi a far pace con i nemici: per qualcuno è molto più semplice l’esercizio futile dell’aforisma a ogni costo, il cinismo elevato a regola di vita; o forse quel qualcuno non ha paura di morire e io mi sto sbagliando mentre affermo il contrario. Non lo saprò mai. Certo, però, che morire è davvero un cazzo di casino.

Ma una cosa la so. Pochi giorni fa è venuto a mancare un vecchio amico di famiglia, una di quelle persone che conoscono i tuoi genitori da una vita, e che tu stesso conosci da quando sei nato. Uno di quelli che ti hanno visto crescere, diventare uomo, studiare, laurearti, sbagliare storie d’amore e di amicizia, eccetera: e che in ogni caso erano lì, te li immaginavi in quella bella casa con le vetrate ampie a godersi la famiglia e la pensione. E che ti aspettavano, tutte le volte che ritornavi a casa dopo una lunga assenza. Sono quelle persone che ci sono, ecco, ci sono e basta.

Quando ho saputo che era morto, e tutti ce lo aspettavamo perché stava maluccio da parecchio tempo, non ho provato tristezza come tante altre volte. Ho provato piuttosto due cose: affetto, ma quello lo provavo già prima, e una punta di invidia. Perché quando una persona cara muore, e tu non ti senti triste, vuol dire che la morte non è distacco ma è compimento di un’esistenza. E’ l’ultimo appuntamento di un uomo che ha vissuto, ha seminato, non ha solo consumato spazio e risorse ma piuttosto li ha creati dal nulla. Magari non ha compiuto gesti grandiosi, nessuno lo ha mai guardato come un faro illuminante, però non va via dalla vita con le mani piene: perché invece di prendere ha dato.

Ora, ripeto, io credo a poco e niente e non ne vado certamente fiero. Però, se penso a lui, la metafisica della Dipartita assume un senso nuovo: me lo immagino che ride, sono giorni che mi sembra di sentire le sue risate grasse fin quaggiù, e non riesco a essere triste perché lui è lì, da qualche parte, che ride il riso dei giusti. E allora nessun cuore malato ti può stroncare, nessuna sonda ecografica è una sentenza inappellabile di morte. Noi siamo ciò che facciamo nella nostra vita, e la nostra eternità è il ricordo che di noi avranno le persone che ci hanno conosciuto.

Nel bene e nel male.

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