Mille risposte, tutte migliori della mia

di | 19 Giugno 2012

Da poco ho rivisto un collega, vecchio compagno di corso in specialità. Lui bazzica ancora, lavorativamente parlando, dalle parti in cui ci siamo specializzati; io invece da lì sono fuggito dodici anni or sono. Un po’ di malavoglia, perché ero così affezionato a quella città in cui avevo studiato per tanto tempo, ma anche con un certo sollievo: perché l’ambiente, nei quattro anni di specialità, mi aveva messo a dura prova e avevo voglia di misurarmi con realtà lavorative differenti (traduco per chi parla come mangia: ero veramente agro, come si dice da quelle parti, e volevo cominciare a lavorare in un posto in cui nessuno conoscesse nemmeno il mio nome).

Però, in fondo, io sono un romanticone. Mi ero affezionato al luogo e alle persone e alle abitudini dei quattro anni di specialità, e poi ho mantenuto negli anni un orgoglio intellettuale di appartenenza che probabilmente non è mai stato commisurato nè agli eventi personali di quegli anni di specialità nè al triste destino a cui nel mentre la mia Scuola è andata incontro; un orgoglio che, probabilmente, nemmeno chi mi ha reso specialista potrebbe comprendere fino in fondo.

Fatto sta che i primi anni, giovane radiologo, senza figli, con una moglie molto impegnata e orari lavorativi ragionevoli, spesso tornavo nella città dei miei studi e facevo tappa nella Scuola. Mi faceva piacere incontrare tutti, c’era un gran bel giro di sorrisi che avevano l’aria di essere sinceri: quando un vecchio specializzando tornava a casa a trovarci anche io, anni prima, ero animato da sincera gioia. Però, devo essere altrettanto sincero, non sempre andavo a controllare se il Direttore fosse in studio. Sarà che tra noi due non c’era mai stato feeling spontaneo: tra le altre cose, non compresi mai lo scarto enorme e inspiegabile tra ciò che mi chiedeva, e che continuò a chiedermi sempre di più nei quattro anni di Scuola, e il misero biscottino finale rappresentato dal risultato dell’esame di fine anno.

Un giorno, però, lo incontrai in corridoio. Lui mi guardò con una punta di sorpresa nello sguardo e disse, senza neanche salutare: E tu cosa ci fai qui? Beh, c’erano mille risposte a quella domanda brusca, una migliore dell’altra. In un mondo ideale, ciascuna di quelle risposte avrebbe dovuto e potuto illuminargli la giornata, indurgli un largo sorriso interiore che sarebbe durato fino a sera. In quel mondo, dopo cena, il Direttore si sarebbe accomodato sulla sua poltrona preferita, sigaro in bocca, e avrebbe potuto fare mente locale sugli ultimi anni di attività universitaria, sulle facce più o meno meritevoli di chi aveva accolto nella Scuola, meditare sui miracoli che compie chiunque sia chiamato all’arduo compito di insegnare un mestiere ai suoi ragazzi. E poi addormentarsi con la muta soddisfazione di chi ha svolto un compito con amore e passione, sicuro di aver piantato parecchi semi in giro e che qualcuno di quei semi, anche se non tutti e chiaramente non tutti allo stesso modo, sarebbe diventato un albero da frutto.

Io invece mi irritai e diedi l’unica risposta falsa che potevo dare: Passavo di qua, dissi. Invece non passavo di là per caso, ci ero andato apposta per sentire di nuovo quel delizioso odore di umidità che mi aveva accompagnato nei quattro anni, per riguardarmi gli angoli bui in cui mi ero imboscato a studiare (o a volte a dormicchiare, se la notte prima era stata brava), la panchetta di legno della sala diagnostica in cui avevo chiacchierato tanto con la mia amica e collega preferita, che adesso non c’è più, e di cui mia figlia porta il nome. Ero andato lì perché le persone mi mancavano e sentivo il bisogno, come lo sento ancora adesso, di ringraziare chi aveva contribuito in qualche misura a formare la mia professionalità e a regalarmi l’opportunità della vita.

Insomma, tutto questo per dire che le parole che pronunciamo hanno un peso, a volte un peso considerevole, e hanno delle conseguenze. La conseguenza, nella circostanza di cui ho narrato, è che io da allora non ho più fatto ritorno nel mio Istituto. Mi sono limitato a ricordare e a fare in modo che il tempo smussasse gli spigoli dei miei ricordi, lasciandoli levigati come pietre di fiume; e nel mentre, per fortuna, mi sono perso il declino inesorabile di una Scuola prestigiosa, la chiusura dei locali dove si era svolta la mia specialità, insomma tutte le amarezze incomparabili che accompagnano la fine di una civiltà gloriosa che poi viene sostituita dall’alto medioevo.

Ma anche questo non è del tutto vero. Dai tanti semi sparsi in giro, qualcuno anche di malavoglia, alla fine è germogliato qualche albero. Ecco, mi piace pensare che a volte la forza della natura sia superiore alle follie e alle debolezze umane; e che anche chi vuol distruggere tutto, alla fine, finisca per trovarsi con un lascito, un’eredità che mai avrebbe immaginato di meritare. Non so quanto valga tutto ciò, ma una cosa è certa: a me fa piacere raccontarlo.

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