Niente di preoccupante

di | 19 Marzo 2015

Questo blog, lo dico spesso anche se il tema dominante è il mio lavoro, non è che un diario online. Come ogni diario che si rispetti, l’autore ci scrive su quando gli pare, quello che gli pare, nei modi in cui gli pare. La differenza consistente per un grafomane compulsivo come il vostro affezionato blogger, che ha avuto il coraggio di tenere un diario quasi quotidiano dal 1981 al 2004 (cartaceo fino al 1994; su floppy disk gli anni successivi), è che questo lo leggete in parecchi, mentre nel lontano 1981 mi illudevo che nascondendolo sotto il letto mia madre non lo avrebbe mai trovato (pia illusione, lo dico adesso che sono genitore e so bene che sotto il letto dei bambini bisogna spazzare ogni giorno).

Tuttavia, per quanto io mi sforzi di essere il più possibile svincolato dai casi miei quando parlo del lavoro quotidiano, qualcosa deve pur filtrare del mio stato d’animo: e allora miracolosamente, in nome del gemellaggio spirituale tra anime risonanti che fa tanto new age, al mio indirizzo di posta elettronica arrivano molte più email che di norma. Alcune di esse narrano di scoramenti lavorativi con radici comuni al mio, di scoramento, e altre che invece del mio evidente scoramento chiedono cagione. L’ultima, in ordine di tempo, da parte di una cara amica: la quale, in virtù della deliziosa gentilezza di cui l’ha dotata madre natura, non mi chiama mai direttamente ma riesce a farsi sentire in modi alternativi ogni volta che butta male. Perché, cari miei, butta un tantinello male davvero: e con questa email rispondo a tutti quelli che mi hanno scritto nelle ultime settimane, manifestando a vari livelli empatia con il sottoscritto.

Una delle meraviglie della vita è la costante instabilità della vita stessa: quando credi di aver capito tutto, beh, quello è proprio il momento in cui improvvisamente cambiano le cose e tutte le strutture faticosamente erette, intorno alle quali avevi appeso i tuoi effetti personali, crollano a terra. Questo, è ovvio, ha anche a che fare con il mio lavoro e le modalità con cui cerco di espletarlo: alcuni colpi sono più duri di altri, e beato chi non ha dovuto faticare per raggiungere un risultato che, più volte si che no, nemmeno meritava. Ma io ho la pellaccia dura, credetemi, e purtroppo anche la testa. E’ una cosa che dico sempre agli ex specializzandi che entrano nel rutilante mondo del lavoro: voi, e solo voi, siete la misura di tutte le cose. Se non vi trovate bene nel vostro ambiente lavorativo non date la colpa agli altri, perché la colpa del malessere potrebbe essere vostra. E cambiare aria può essere la soluzione giusta ai vostri problemi, è vero, ma anche sbagliata: qualora per esempio nel nuovo posto di lavoro si creino le stesse situazioni di conflitto dalle quali state fuggendo (o se ne creino altre, differenti ma ugualmente dolorose). Per cui conviene lavorare su sé stessi, e tirare avanti in qualche modo.

Eppure a volte non è possibile evitare i bivi: nella vita per fortuna non ne ho avuti molti, ma tutti sono stati di importanza fondamentale per determinare il futuro che da lì a poco si sarebbe realizzato. Noi siamo, scusatemi la banale ovvietà, la somma delle nostre scelte: e la possibilità di scelta, per definizione, tende ad assottigliarsi con il tempo. Un po’ come arrampicarsi su un albero, andare sempre più su e accorgersi che più si sale più il numero di possibili biforcazioni su cui continuare il percorso è sempre minore; e, nel contempo, realizzare che i rami diventano sempre più sottili fino a che non tengono più il tuo peso e si spezzano, con conseguenze sovente disastrose. E allora il segreto della felicità può essere cambiare albero, forse, o anche solo fermarsi dove si è e arredare al meglio quell’angolo di ramaglia che almeno ripara dal sole a picco e dalla pioggia battente.

II guaio è che qualcuno di noi, e io mi ci metto dentro, è arso da un fuoco cattivo che lo spinge a non accontentarsi mai di nulla, ad aspirare costantemente a qualcosa di meglio, e sente una vocina da schizofrenico che non fa che ripetere: non stai facendo abbastanza, non stai costruendo abbastanza, e i tuoi talenti, ammesso che tu li abbia, stanno andando sprecati. Ecco, se io fossi un uomo saggio e stessi parlando con uno messo così gli direi, come ho fatto in passato, che non bisogna lasciarsi abbattere dalle traversie, che ogni momento di crisi cela opportunità a non finire e che il lavoro, in definitiva, paga sempre. E aggiungerei, sornione: non te l’ha mica prescritto il medico di costruire qualcosa, magari sei solo quello che deve passare i mattoni.

Oggi però a me stesso io non posso fare a meno di dire un’altra cosa: che ho voglia di leggere, scrivere, suonare la chitarra, dormire, rincoglionirmi con un videogioco, cimentarmi cioè con tutto quello che ha sempre fatto parte della mia vita interiore ma che negli ultimi anni ho trascurato, preso com’ero da altri generi di obiettivi che mi hanno risucchiato parecchio, anzi parecchissimo. A me stesso oggi dico che per un po’ non ho voglia di misurarmi con immani e inumane battaglie contro le presunte stupidità del mondo, burocratiche e non, opportunistiche e non, politiche e non, ammesso e concesso che lo stupido potrei anche essere io; e che ognuno vivendo si deve pur assumere in pieno il carico delle responsabilità delle proprie scelte: quelle personali e quelle fatte in nome e per conto della collettività. Devo dirmi, a malincuore ma con oggettiva onestà intellettuale, che le mie speranze di incidere in modo duraturo sulla dura scorza del mondo sono poche e deboli, e che sarebbe molto più fruttuoso limitarmi a suggerire che su un referto di un Rx torace non dovrebbe mai essere scritto “rinforzo della trama polmonare” piuttosto che volgere l’attenzione ai massimi sistemi.

Per cui credo, ma per favore non ditelo a nessuno, che per un po’ di tempo è proprio a questo che mi dedicherò: a me stesso. Il che implica, per come sono fatto, dedicarmi anima e core a un paziente difficile, un’urgenza complessa, uno specializzando sveglio, un collega in gamba con cui immaginare scenari di fantapolitica, il prossimo congresso in cui mi inviteranno, se mi inviteranno, come oratore. Non voglio sapere altro e non voglio occuparmi di altro se non di far bene il mio lavoro e di distribuire in giro l’unica ricchezza che possiedo: l’entusiasmo. In che modo, e dove, e quando, questo lo vedremo.

E quasi dimenticavo: grazie a tutti, eh.

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