L’ho capito appena si è alzata in piedi, nella sala d’attesa gremita all’inverosimile. La camicia bianca, di tela indiana. Il gilet colorato. I capelli lunghi, raccolti in una coda, non più sfiorati da chissà quanti anni dall’ombra di una tintura. Gli occhiali rotondi. L’ho capito subito, insomma, che io e lei avremmo parlato molto. E così è stato.
Io: Cos’è questa cicatrice sulla pancia, signora?
Lei: Questa? E’ il pezzo che mi hanno tolto per ricostruirmi il seno dopo l’operazione.
Io: …
Lei (traendomi dall’imbarazzo, e già ridendo come una matta): Pensi, quando stavo per entrare in sala operatoria ho detto al chirurgo: Ma dottore, dimmi una cosa, non è che se mi metti un pezzo di pancia sul petto poi scoreggio dalle tette?
Ora, ditemi voi se è possibile lavorare in queste condizioni, con le lacrime agli occhi da quanto un paziente riesce a farti ridere. Che poi ha continuato, con un’energia straordinaria, da levarmi il fiato.
Lei: Dottore, la conosce la legge dell’attrazione?
Io: Maledizione, certo che la conosco, ne porto ancora addosso le cicatrici.
Lei: In che senso?
Io: Nel senso che una cosa ho capito nella vita, cioè che bisogna stare attentissimi a esprimere un desiderio. Perché una volta espresso il desiderio la cosa che hai desiderato comincia a muoversi verso di te, e prima o poi ti raggiunge. Il problema si crea quando il desiderio che hai espresso ti crea più guai che gioia, ecco perché tutti i desideri prima di essere espressi devono essere parecchio, ma parecchio ponderati.
Lei: Bravo, ha già capito tutto. E’ già tanto avanti.
Io: Avanti io? Ma lei ha un’idea?
E giù a ridere.
Alla fine la signora ha giunto le mani e mi ha fatto un piccolo inchino, mancava solo che mi dicesse namasté e tutto si sarebbe compiuto. Prima di uscire ha sorriso, mi ha guardato e ha detto: Stasera avrà qualcosa da raccontare, dottore.
Io, a mia volta, ho sorriso e le ho detto grazie. Perché è vero, io vivo per le storie da raccontare. Appeso a un filo, come tutti, racconto le mie storie in tutti i modi possibili, tutti quelli in cui riesco. Mi commuovo per le storie lieto fine, mi dispero per quelle andate a male, ma poi alla fine sono coriaceo come la pelle del rinoceronte e a volte l’unica sensazione che avverto come completamente reale è quella di essere un viaggiatore che prende appunti.
Insomma, mi accorgo che la mia vita sta comodamente in una Moleskine: e la cosa non mi dispiace. E d’altronde sta in un’agendina anche la vita degli altri, di quelli che incontro per strada e mi fanno dono di una risata, di una stretta di mano, della ricetta antichissima della polenta con il mosto di vino. O che mi guardano con una sorta di rassegnato compatimento, con un mezzo sorriso, mentre mi affanno inutilmente a incidere qualche parola sulla ruvida scorza di un albero millenario. Pensando di me che perdo il tempo, che tanto non ne vale la pena.
Mentre invece, canta il poeta, non è una sfida, non è una rivalsa, non è la finzione di essere meglio, non è la vittoria o l’applauso del mondo, è di ciò che succede il senso profondo.
Il senso profondo. Tutto qui.