Notte di guardia. E notte di neve.
Poca gente in giro, pochi esami per il radiologo. Lavoro un pò ad altri progetti, mentre aspetto i clienti, poi decido di fare una capatina alle macchinette distributrici del quarto piano, quelle di fronte all’ingresso della ginecologia.
In ascensore incrocio un uomo e una donna. Lei ha il pancione e si vede lontano un chilometro che è alla fine della gravidanza: anche senza la valigia che si porta dietro, i suoi occhi parlerebbero lo stesso. E parlerebbero d’amore, amore allo stato puro. Lui ha una faccia da avanzo di galera: è alto due metri, grosso come un armadio a due ante, i capelli sparati in alto con il gel, il volto segnato dalle cicatrici.
Dico, sorridendo: Scommetto che andate al quarto piano, vero?
Lei sorride di rimando e ha già quasi gli occhi lucidi di commozione. Lui scioglie all’istante quell’aria da truce canaglia con un sorriso a trentadue denti, uno di quei sorrisi che ti fanno tornare sul volto l’espressione che avevi da bambino anche a novant’anni suonati. E comincia a muoversi, a gesticolare, a parlare di quel primo figlio che cambierà la loro vita: e anche lui ha negli occhi quella luce blu di euforia e incoscienza che accidenti se la conosco bene, perchè non mi ha ancora abbandonato anche adesso che il mio grande ha quasi tre anni.
Al quarto piano ci lasciamo: io vado alle macchinette, loro in ginecologia. Questa notte nascerà un bimbo, e nascerà sotto la neve. Un parto da non dimenticare, per tutti e tre.
E mentre sgranocchio i giambonetti guardo fuori dal finestrone del quarto piano. Nevica che è un piacere. Questo lavoro è un piacere. Sorridere alle persone è un piacere. E ricevere i loro sorrisi di rimando, beh, quello è ancora meglio.