C’è uno studente in medicina del nord ovest italiano che ogni tanto mi scrive, aggiornandomi sugli esami superati e sul suo sogno di fare il Radiologo (da grande, come dice lui). Questo studente, che chiamerò Alberto, mi ha chiesto di recente quanto segue: Ti leggo spesso parlare di “metodo”. Ma se ti chiedessi di definirlo per esteso, questo “metodo”, cosa mi diresti?.
Inutile dire che questa domanda è cibo per il blog: per cui, scusatemi, mi tocca rispondere pubblicamente. Il che vuol dire pontificare ancora per qualche riga.
Io il Metodo non so esattamente cosa sia; o almeno non so cosa sia in termini assoluti. Se lo sapessi esisterebbe già da qualche parte un manuale americano che vi spiega come metterlo in pratica con il miglior risultato possibile. Invece io ho il mio metodo: che è un’altra cosa, vale per me e per me soltanto. Posso ringraziare chi ha fatto qualche sforzo per insegnarmelo e cercare di trasmetterlo agli specializzandi che mi seguono; ma alla fine chi me lo ha insegnato ha creduto di insegnarmelo, e io stesso credo di insegnarlo agli specializzandi che mi seguono. Perché quel credere? Perché il metodo è una conquista personale: il vero Alunno è quello che il metodo del Maestro lo sottopone al vaglio della sua critica personale, e poi lo stravolge secondo le sue esigenze e le caratteristiche personali. Qualunque altro tipo di metodo è fallimentare perché non lo si è digerito. Messo in bocca, forse, masticato e inghiottito; ma non digerito.
In ogni caso, visto che mi si tira a cimento, vorrei dire che il primo passaggio per imparare un metodo è che qualcuno te lo insegni: il che, nelle nostre scuole di specialità, non è automatico come si potrebbe immaginare. Magari chi te lo sta insegnando non ne è conscio, ma nel momento stesso in cui un’informazione passa da chi comunica a chi ascolta, chi ascolta capisce che l’informazione stessa è (o dovrebbe essere) sottesa da un metodo di elaborazione e/o di trasmissione della medesima. Faccio un esempio: prima ancora di entrare in specialità, nelle settimane che ho frequentato in attesa del concorso (autunno 1994, ahimè), il professore mi spedì a frequentare la sezione ecografica. Dove uno degli specializzandi del terzo anno, ricordo, sembrava ben orientato: e fu lui a dirmi di cominciare l’esame da sinistra (la milza) e poi arrivare a destra (fegato). Alla mia richiesta di spiegazioni la risposta laconica fu: Così non ti impiastricci con il gel. Beh, anche questo è metodo: non scientifico ma empirico. Ed è per dire che il professionista che si diventa a quaranta anni dipende da tutto, anche dalle manie di pulizia dello specializzando più anziano che hai visto all’opera quindici anni prima.
Poi esistono altri passaggi, più importanti. Avere la fortuna che uno “strutturato” decida che vale la pena di perdere un po’ del suo tempo con te, e andare più a fondo su determinate questioni che tu o lui stesso avete sollevato, è una fortuna. Ma lo è ancor di più se quello “strutturato” referta e ragiona secondo un suo metodo: perché in molti ancora non lo sanno, specie tra gli studenti e gli specializzandi, ma la maggior parte dei radiologi non ha un metodo per la refertazione, o comunque non ha un metodo su cui abbia teorizzato con grande fatica o modificato nel corso degli anni di lavoro (la maggior parte in acqua si accontenta di galleggiare, in pochi imparano a nuotare egregiamente nei vari stili). Per cui tante volte basta ascoltare, vedere all’opera, leggere i referti.
Ma nessun metodo può essere elaborato e funzionare senza un solido background culturale. Lo ripeterò fino alla nausea: in questo mestiere bisogna studiare e non smettere mai di farlo, e se vi dovesse mancare la voglia di studiare forse sarebbe meglio cambiare mestiere. Se non avete sviscerato ogni singolo argomento di cui vi occupate, con pazienza certosina, non vi verrà mai il dubbio che il metodo usato nell’occuparsene possa essere migliorabile. Non vi verrà in mente nemmeno che è utile avere un metodo: e continuerete a refertare a pappagallo, come diceva un mio vecchio collega e amico, adoperando formule allucinanti (come il fatidico “rinforzo del disegno polmonare”) solo perché da qualche parte, nel corso della vostra formazione, l’avete ascoltata con la coda dell’orecchio.
E poi ci vuole l’ingrediente fondamentale: bisogna essere curiosi e irriverenti: due caratteristiche che in genere nelle scuole di specialità non vi saranno di grosso aiuto, ma nella vita lavorativa si. Perché certo, lo specializzando che non accetta supinamente le perle di saggezza che cascano dalla bocca del professore non sarà il modello di specializzando a cui la maggior parte dei professori aspirano. E perché certo, la curiosità in ambienti del genere può essere scambiata per supponenza, ed essere castigata severamente. Ma questi sono problemi didattici che per fortuna esulano dalle mie competenze. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che la mia preghiera quotidiana allo specializzando di turno è : Per favore, trova il modo di mettermi in difficoltà. Recentemente uno di loro c’è riuscito, e più di una volta: lungi dal provarne imbarazzo, so già che farò di tutto perché, una volta specializzato e se ne avrà ancora desiderio, entri a far parte della squadra in cui attualmente gioco.
Ecco, questo per me è il metodo. Nessuna ricetta segreta, nessuna formula magica. Solo duro lavoro, curiosità e irriverenza. E, per dare sapore al tutto, un pizzico di umile buon senso: per mettersi sempre in discussione, che fa bene, e perché ogni tanto cazzate ne sparano tutti. Anche i geni sublimi: figurarsi i comuni mortali come noi.