Nuovo come un’altra volta ancora

di | 18 Gennaio 2016

Prima le cosa andavano così: mi cambiavo, uscivo dal reparto e dall’ospedale, infilavo le cuffiette dell’iphone nelle orecchie e mi avviavo verso casa. A passo lento, diciamo, dieci o dodici minuti al massimo: il tempo di un paio di canzoni, di due-chiacchiere-due con un amico, e poi subito nel vortice della vita familiare, cose da mettere a posto, bambini che saltano addosso, problemi da risolvere, malumori da farsi passare mentre la tua testa, inutile negarlo, è ancora tutta integralmente sui casi della giornata. Voi che non fate il mio mestiere non lo potete sapere, ma la testa di un medico non stacca quasi mai dal suo lavoro. Volete una prova, che qualunque radiologo potrà confermare? Risveglio in piena notte, improvviso, e non perché hai fatto un incubo. Semplicemente: Diomio, mi sono dimenticato di segnare in quel referto ecografico che c’era un linfonodo ingrandito all’ilo epatico.

Mi è già accaduto di lavorare a 20 chilometri da casa: bestemmiavo tutto il tempo, maledivo i maledetti automobilisti incapaci di tenere una media onorevole, di segnalare con una freccia le inevitabili svolte, lenti dove avrebbero dovuto essere rapidi e rapidi quando avrebbero dovuto star fermi ad aspettare. Code micidiali, un’ora di strada per percorrere 20 chilometri: e mi veniva il mal di fegato. Io guido aggressivo, è un dato di fatto.

Ma ero più giovane, e di parecchio. Adesso ho 28 chilometri tra casa e ospedale: la mattina si tratta di quaranta minuti circa, andando tranquilli; il pomeriggio poco meno. E, soprattutto il pomeriggio, è una sensazione nuova: potersela prendere comoda, non dover correre, ascoltare musica o un audiolibro, e se va male ascoltare radio radicale (e stupirmi sempre, come un bambino, di come Marco Pannella possa parlare per ore, ore intere, senza giungere alla logica conclusione di nessuno dei discorsi in cui si cimenta; di come sia capace di argomentare le sue stesse argomentazioni con argomentazioni bizantine fino a perdersi in una spirale di parole in cui il fine, almeno a me sembra così, è il fatto che lui si senta parlare con quella sua leggendaria voce arrochita da un numero tendente a infinito di sigarette. Una metadiscussione tra sé e sé, insomma: Pannella è meglio della mamma, ti rimette al mondo quando sei triste e stanco, come la schiuma dello shampoo di Gaber, e la sua voce ti culla per decine di chilometri senza che sia necessario districarsi in tesi e antitesi, perché i suoi discorsi si compongono di sole ardite figure retoriche. Pannella va da solo, come un treno su rotaie). Oppure ascolto radio 3, a quell’ora ci sono bellissimi programmi che parlano di musica e letteratura, ma non è questo il punto.

Il punto è che il viaggio si è trasformato in qualcosa di molto diverso dalla mera perdita di tempo in strada: è diventato uno spazio nuovo di decompressione, approfondimento, scarico e carico. In auto posso cantare (lo faccio, su Spotify c’è una straordinaria sezione di karaoke), prendere a male parole virtuali qualcuno con cui sono incazzato, recitare come Alberto Lupo La pioggia nel pineto di D’Annunzio o interi canti della Divina Commedia, che ormai li so a memoria. Ma più che altro posso scaricare il peso che ho sulle spalle, non solo quello lavorativo, e arrivare a casa pronto ad affrontare la serata. E, in generale, è un altro dei modi in cui posso imparare a sentirmi nuovo.

Che poi di sera perda i sensi sul divano, ogni tanto, non fa testo. D’altronde mi impegno così tanto durante il giorno, e dunque potete capirmi.

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(La canzone della clip è Nuovo, di Gianmaria Testa. Tratta dal disco Vitamia, 2013)

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