On writing

di | 25 Ottobre 2015

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Alla fine, approfittando dei cambiamenti inattesi che si sono manifestati nella mia vita, ho finalmente ripreso a scrivere a ritmo pieno.

No, non sto parlando di argomenti scientifici (che sono stati l’argomento principe degli ultimi quattro anni di vita, ogni santa volta che accendevo il PC) e nemmeno del blog (avrete infatti notato un calo nella frequenza dei post, legata al fatto che talora i cavoli propri diventano oggetto di strenua difesa, piuttosto che di altro). Sto parlando di storie, storie mie: cioè quello che ho sempre fatto fin dalla tenera età di 8 anni (benché tutti racconti risalenti a quell’epoca, trascritti in bella calligrafia sui quaderni delle elementari, quelli che avevano come protagonisti me e i miei compagni di scuola e che il maestro leggeva a tutta la classe, siano stati buttati via nell’ultimo trasloco dei miei genitori).

Insomma, in attesa di stabilizzarmi nella nuova vita che sto per intraprendere, scrivo. Scrivo per me, dico, e nemmeno mi pongo il problema che qualcuno in futuro possa leggermi: di gente che scrive male è pieno il mondo, ho scoperto grazie ad alcune app, e non ho alcuna intenzione di aggiungermi alla mischia. Scrivo per lo stesso motivo per cui scrivevo da bambino: questa è terapia, gente, terapia potente e per giunta gratuita.

Per cui giro sempre con l’iPad dietro. Ogni volta che posso lo apro, collego la tastiera con il bluetooth e comincio a battere sui tasti. Non importa quello che sto scrivendo, seguo il flusso delle parole e basta: e infatti sta venendo fuori una roba pazzesca, fortissima, che disorienta me per primo perché per colpa del mio maledetto senso del pudore non avevo mai scritto su argomenti del genere; ma va bene lo stesso, vado avanti e scrivo. Pesto sui tasti e punto. Per una volta tanto farò come suggerisce Stephen King in On writing: scrivere tutto, di getto, far lievitare in un cassetto della scrivania, poi riprendere la storia in mano e se è il caso riscriverla tutta. Mi par strano, perché ho sempre usato il metodo opposto: ma visto che è tempo di sperimentazioni, beh, sperimentiamo pure.

Siccome negli ultimi tempi sono riuscito a ricavarmi spazi inediti di tempo, e il tempo in un certo senso sembra essersi dilatato, ho portato spesso i bambini a nuoto. Loro per grazia divina sono ormai cresciuti, per cui non faccio altro che portarli in piscina, mollarli all’ingresso, aspettare un’ora e mezza e poi riprenderli all’uscita già docciati e asciugati (bravi, che sono, l’orgoglio del papà). In quell’ora e mezzo potrei fare altro: la spesa, per esempio, o tornare a sistemare casa. Invece me ne frego e resto lì, fuori dall’ingresso, dove ci sono panchine in muratura occupate da genitori (più spesso di sesso femminile, il che in linea di principio non è male) che attendono, come me, la fine del turno dei figli. Le panchine, per una sorta di miopia progettuale, o forse per scoraggiare soggiorni troppo prolungati, non hanno lo schienale: allora mi siedo a terra, appoggio la schiena al muro, inserisco le cuffiette e comincio a scrivere. Ogni tanto qualche mamma si siede sulla panchina, giochicchia con il cellulare (il vero dramma del terzo millennio), mi guarda curiosa e poi prova ad attaccare discorso.

Madonna quanto scrivi.

Io tolgo una delle cuffiette dall’orecchio. Prego?

Ho detto, madonna quanto scrivi.

E’ la lista della spesa.

Così lunga?

Certo, io ho tre famiglie, faccio spesa per tutte e tre.

Lei resta interdetta, io sorrido, le faccio l’occhiolino e poi mi rimetto a scrivere. Quasi sempre, dopo un minuto, la mamma va via: ho amici che avrebbero qualcosa da ridire su questo comportamento poco predatorio, ma io invece direi che è molto appropriato alla sobrietà del momento storico. Anche se poi me la rido sotto i baffi.

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