Sto guardando, in questo preciso istante, la finale di Wimbledon.
Lo sapete, io da vivo fui tennista. Non particolarmente abile, ne convengo, né mai stato di particolari belle speranze. Però in mezzo al campo ero quasi sempre un osso duro, se abbastanza allenato; e avevo compreso alla perfezione, sebbene mai avrei potuto esprimerlo con le stesse straordinarie parole di David Foster Wallace, che il tennis è giocare a scacchi correndo. Come negli scacchi con il bianco, chi serve deve vincere il game; il nero, cioè chi riceve, nel mondo tennistico ideale può solo cercare di limitare i danni e sperare in un errore dell’avversario.
In mezzo al Centre Court più prestigioso del mondo, oggi, nientemeno che Djokovic e Sua Maestà Federer, che alla veneranda età di 38 anni si è permesso di strapazzare in semifinale la scimmia urlatrice Nadal e sta dando filo da torcere a un ragazzone serbo che ha 6 anni meno di lui e in ultima analisi, so che dicendolo mi attirerò le ire funeste dei suoi fan, è un Corrado Barazzutti ipervitaminizzato del terzo millennio: infaticabile, capace di raggiungere quasi qualsiasi palla il Fenomeno scagli dall’altra parte della rete, un muro come quelli contro i quali mi allenavo da ragazzino, e sempre lì con la testa. Intendiamoci: Nole mi è simpatico, è un bravo ragazzo, e poi uno che riesce a vincere tutti i tornei dello Slam non può non avere qualcosa in più della media dei tennisti di tutti i tempi. Ma non c’è niente da fare: quando Federer scaglia i suoi rovesci a una mano, con quel movimento ampio, elegante e del tutto sballato cronologicamente io non posso fare a meno di commuovermi. A 38 anni suonati, lo ha fatto ancora in questo preciso momento con un passante di diritto in controbalzo che nemmeno la buonanima di Bill Tilden sarebbe mai riuscito a produrre, il Re incanta. Lui incanta, l’altro non sbaglia mai.
Può darsi, accadrà quasi certamente, che alla fine vinca il match Nole e non Roger. Eppure, fatta la tara dei mila Wimbledon già portati a casa da questa specie di Highlander, vi dirò che non importa chi vincerà o perderà la partita. Ci sono circostanze in cui il solo fatto di esserci, e produrre il miglior tennis di tutti i tempi, è sufficiente viatico per il resto dei propri giorni.
Qui, sul pianeta Terra degli uomini ordinari, quel tipo di tennis è impensabile. Che si guardi la cosa dal punto di vista dell’estro divino di Roger o della possanza fisica e mentale di Nole, la questione si riduce a perseguire il meglio di cui siamo capaci, che quasi sempre non è granché, e a resistere a oltranza anche quando ti trovi cinque pari al quinto e senti che le forze ti stanno abbandonando. La differenza, enorme, e che su questo campo qui nessuno applaude, e se sbagli qualcosa ti fischiano pure. La differenza è che tra poco tempo non ci sarà più nessun Wimbledon da giocare, che i raccattapalle coraggiosi sono già scappati negli spogliatoi con la coda tra le gambe e io già vedo le facce perplesse e angustiate di tutti coloro che fino al giorno prima si erano divertiti a sputare nel piatto in cui mangiavano. La differenza è che non è possibile giocare al meglio dei cinque set su sette, o dei sette su nove: perché poi il tennista schianta.
E dal Centre Court dell’Ospedale Civile è tutto, a voi studio.