Ooh, ci vuole ogni genere di persone a fare ciò che la vita più o meno è, sì

di | 18 Dicembre 2021

Questa è una storia, breve e intensa, di un paziente stronzo. Uno di quelli che nessun medico vorrebbe mai curare. Uno che non vorresti nemmeno come vicino di casa, perché sicuramente trasformerebbe le riunioni di condominio in storie dell’orrore alla Stephen King. La storia risale al 2011 e, come vedrete alla fine, non è ancora finita. Dieci anni dopo.

Il peggior paziente del mondo nel 2011 venne operato a un polmone: dopo aver fatto smadonnare un intero reparto di chirurghi e pneumologi, dai quali pretendeva tutto e subito. Come talora capita, l’intervento fu impeccabile ma il decorso post-operatorio no: nel suo torace si formò un empiema pleurico, una specie di sacca purulenta che lo ridusse in condizioni pietose. Dopo vari tentativi terapeutici, liti con le infermiere, minacce di ritorsioni medico-legali e tutto quanto di sgradevole un paziente possa rivolgere alla struttura ospedaliera che lo ospita, il chirurgo mi chiamò e mi chiese di mettere un drenaggio in quell’empiema pleurico. Non prima di avermi avvisato: “E’ un paziente difficile, stai molto ma molto attento”.

Io, che sono un ottimista naturale, lo accolsi in Tac con un sorriso. Mi sedetti accanto a lui e gli spiegai cosa avremmo dovuto fare. Lui non era messo bene: febbre alta, colorito cereo, non stava nemmeno in piedi. Dopo avermi ascoltato replicò che per nessun motivo al mondo si sarebbe fatto mettere le mani addosso da me.
“Ci sono altri modi di guarire l’empiema” disse. “La sua manovra è pericolosa e io non voglio morire in questo modo”.
“Pazienza” gli dissi. “Se cambia idea mi trova qua”.

E la mattina dopo, forse perché le sue condizioni erano ancora peggiorate e si temeva il peggio, il paziente cambiò idea. Tornò in Tac, io mi siedetti di nuovo accanto a lui e gli rispiegai cosa avremmo fatto. Punto per punto. E gli dissi anche quello che dico a tutti i pazienti che arrivano in Tac per procedure interventistiche: “E’ qualcosa che dobbiamo fare insieme, lei e io. E ho bisogno del suo aiuto, non si metta in testa che io riesca a fare tutto da solo”.
E il paziente stronzo, miracolosamente, mi aiutò. Strinse i denti quando usai i dilatatori, il 7, poi l’8, il 9, il 10; fino al 14 che, credetemi, non è proprio sottile come uno stuzzicadenti. Strinse ancora di più i denti quando infilai il drenaggio, li strinse quando cominciai ad aspirare la schifezza che ristagnava dentro quell’empiema. Durante tutta la procedura gli comunicai sempre, con un istante di anticipo, quello che stavo per fare: e lui mi appoggiò, dettò i tempi, a volte mi chiese di continuare e altre di aspettare qualche istante per poter rifiatare.

Alla fine la procedura durò quasi un’ora: che è davvero tanto, per un drenaggio toracico, credetemi sulla parola. Quando fu di nuovo sul letto gli strinsi le mani, gli dissi che sarei andato a trovarlo in reparto e che al successivo controllo Tac sarebbe stato dieci volte meglio di ora. Non stavo mentendo, non lo dissi per fargli coraggio. Ho infilato tanti drenaggi, in toraci disastrati dall’infezione, ed è sempre successa la stessa cosa: il miracolo. Per inciso, io non racconto mai balle ai pazienti. Perché se io fossi al posto loro mi incazzerei parecchio.

E lo rividi, infatti, al controllo Tac. Dopo due giorni e dopo altri quattro. La prima volta parlammo: stava già molto meglio, la febbre era scesa e lui si sentiva più tranquillo. La seconda volta mi avvisò il chirurgo perché io ero di guardia in pronto soccorso. “Per favore, vai a seguire tu l’esame” mi chiese. E poi: “Lui vuole solo te”. E io andai. Non lo portarono in Tac con il letto ma con la seggetta a rotelle: capii che avevamo finalmente scollinato. Non aveva più bisogno di essere spostato a braccia, e quasi quasi dal lettino fu capace di scendere con le sue sole forze. E poi, quando mise giù i piedi, mi fece la domanda che nessuno avrebbe mai potuto prevedere.

“Dottore, la posso abbracciare?” mi chiese con un mezzo sorriso.

Io annuii e ci abbracciamo, sotto lo sguardo un po’ imbarazzato di infermieri, tecnici e portantini. Quando si tratta di abbracciare qualcuno, lo confesso, non mi imbarazzo mai. Poi andai in bagno a raccogliere le idee. Mi guardai allo specchio e per un attimo, ma solo per un attimo, mi chiesi se tutto quello sarebbe davvero servito a qualcosa. Poi dal pronto soccorso mi chiamarono al cordless: stava già arrivando un’altra urgenza. Il bello del mio mestiere è che non c’è tempo per pensare. Solo per ricordare: ma dopo, molto dopo, nel silenzio del proprio letto o sotto lo scroscio della doccia serale.


Dieci anni dopo, ma non è la prima volta, quel signore (che ha ancora il mio numero di telefono, pensate), mi ha contattato via whatsapp. Lui ha una casa in Sardegna con un oliveto di proprietà, dal quale ogni anno trae un po’ di olio: quanto basta per il suo fabbisogno personale. “È un olio buono” dice sempre quando decide di portarmene una lattina, con l’espressione soddisfatta di chi sa il fatto suo. Dice: “Io non uso pesticidi né altre sostanze chimiche pericolose per fertilizzare gli alberi”.

Stamattina mi ha portato due latte e abbiamo preso un caffè insieme. Sono passati più di dieci anni e qualsiasi debito di riconoscenza, ammesso e non concesso che ne esistesse uno, è ormai passato in prescrizione. Mi ha raccontato di come si sente, del tempo libero che ha a disposizione adesso che finalmente ha lasciato ai figli l’azienda di famiglia. Ha detto: “Finché sei dentro il vortice pensi di non poter fare a meno del lavoro, poi scopri il valore del tempo e non vuoi sapere più niente di orari e impegni programmati”.

Io ho pensato a quella casa isolata, con i vicini a duecento metri, al silenzio invernale di una Sardegna finalmente libera dall’incubo volgare del turismo. Mi sono visto infagottato in una felpa da montagna e con il Mac sulle gambe, davanti al fuoco, a scrivere il prossimo romanzo. Poi l’ho guardato con attenzione, il mio ex paziente, ancora in forma, ansioso di vita all’aria aperta, capace di macinare chilometri per portarmi una latta del suo olio. E ho pensato che quel momento può ancora aspettare. E che se esiste ancora un motivo per fare il mestiere del medico, in questi tempi cupi, è proprio questo: prendere il caffè con un uomo che forse senza di te non ce l’avrebbe fatta, dieci anni dopo, in una mattina prenatalizia qualunque, in un bar improbabile gestito da una donna cinese gentile e sorridente, come se ci si conoscesse da sempre.


La canzone della clip è “Every kinda people”, tratta dall’album “Double fun” (1978). La copertina dell’album ci mostra Robert appoggiato con i gomiti al bordo di una piscina disseminata di costumi femminili a due pazzi, mentre ride con la sfrontatezza della gioventù (all’epoca aveva trent’anni o giù di lì), ignaro che sarebbe venuto a mancare troppo giovane. Rober Palmer morì a 53 anni, la mia età di adesso, dopo aver registrato a Parigi il suo ultimo album. Siccome è stato uno dei musicisti più sottovalutati della storia del pop-rock è giunto il momento di dare il mio modesto contributo alla sua causa: ascoltate questa canzone, gli arrangiamenti, in particolare l’uso del basso. Perché è proprio vero, come diceva lui, che al mondo c’è bisogno di ogni genere di persone.

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