Progettistica di un Sistema complesso (e sua applicazione al SSN)

La sanità pubblica è un sistema di grandi dimensioni e pertanto rientra di diritto nella categoria dei cosiddetti Sistemi Complessi.

Un Sistema Complesso è, per definizione, un sistema dinamico a multicomponenti: è cioè composto da diversi sottosistemi che interagiscono tra loro, e questa interazione può essere descritta analiticamente da modelli matematici che con il tempo sono diventati sempre più raffinati e performanti. Ma attenzione: i modelli dicono chiaramente che il comportamento di un sistema complesso non può essere compreso a fondo partendo dal solo comportamento dei singoli elementi di cui è composto, e/o per il solo fatto che gli elementi stessi siano per loro natura destinati a interagire tra loro. Anche perché, come è intuibile pur senza scendere nel dettaglio, la complessità generale di un Sistema aumenta all’aumentare della quantità degli elementi che lo compongono e dalla varietà delle relazioni esistenti tra questi elementi.

Il Sistema Sanità (SS) è stato – almeno finora – inesorabilmente destinato ad aumentare il suo livello di complessità a causa dei naturali fenomeni di espansione legati alla crescita demografica, specialmente della popolazione più anziana: il suo è un caso paradigmatico di come un Sistema Complesso, espletando i suoi compiti primari (nel caso specifico bisogno di salute, incremento della vita media della popolazione), abbia generato un livello di complessità che lo porta molto vicino al punto di congestione (1). Più la sanità funziona, insomma, più è destinata al collasso (salvo il caso, peraltro improbabile, in cui l’investimento economico sulla stessa, da parte di un ipotetico governo di filantropi, tenda a infinito). Questa sua peculiarità, che è poi comune a molti Sistemi Complessi, ci permette di porre due domande chiave: 

  1. Relativamente al SS sono stati strutturati piani a lunga scadenza?
  2. Questi piani sono stati modificati sulla base dell’aumento di dimensioni del problema per la cui risoluzione è stato progettato il SS? 

La risposta a entrambe le domande, come evidenziano i fatti degli ultimi anni, è negativa, ed è indissolubilmente legata non solo alla complessità intrinseca del SS ma anche alla qualità degli uomini che hanno costruito il Sistema. Cerchiamo dunque di capire il perché.

Quando si esamina la complessità di un Sistema vanno specificati alcuni punti chiave.

  1. Scopo istituzionale del Sistema. Perché uno Stato dovrebbe garantire il diritto alla salute dei suoi cittadini? Perché la salute, oltre a essere un diritto sancito dalla Costituzione, ha impatto diretto sulla demografia, sul lavoro (un cittadino sano lavora di più e meglio di uno malato) e quindi sulla crescita economica complessiva. Infatti un SS in equilibrio investe risorse non solo per la cura delle patologie ma anche per la sua prevenzione: da una parte spende in prevenzione secondaria, per esempio, e dall’altra, se ha speso bene, mette in atto un circolo virtuoso che permette di risparmiare sulle cure.
  2. Struttura del Sistema: deve essere chiara e mirata all’efficienza, risultato possibile solo se se ne conosce a fondo la complessità. Il problema è che il SS è un sistema molto complesso, ma su questo torneremo in seguito,
  3. Flusso di informazioni all’interno del Sistema. Chiunque mastichi di management sanitario – di management in senso generale, in realtà- sa benissimo che il fulcro del funzionamento di un Sistema Complesso sono le previsioni sul suo andamento complessivo, a loro volta basate sulle premesse (i piani di costruzione del Sistema) e su precisi modelli matematici. Ma chi si occupa di management sanitario, coi “cruscotti”(2) sempre aperti sullo schermo del PC, spesso non capisce – o finge di non capire – che le previsioni basate sui modelli matematici spesso non tengono conto delle due domande chiave che abbiamo posto all’inizio: i piani di costruzione del Sistema sono a breve, media o lunga scadenza? E se le dimensioni del problema cambiano sono modificabili le specifiche del Sistema? Anche qui esiste qualche problema concettuale, del quale riparleremo.
  4. Logica del Sistema: il punto nodale di un Sistema Complesso è stabilire cosa esattamente deve succedere a ognuno degli elementi che lo compongono in ciascuna delle situazioni in cui partecipa al processo. Nel SS questo si traduce, tra le altre cose, nel concetto più ampio di organizzazione: i turni dei medici o delle professioni sanitarie di un servizio sono l’esempio più semplice e paradigmatico. I Sistemi Complessi sono per definizione sistemi ad alta densità, cioè composti da molte persone e pertanto da un numero elevato di interazioni tra i componenti del Sistema stesso: i problemi, pertanto, non possono mai essere risolti focalizzandosi su un singolo elemento del Sistema. Occuparsi del singolo elemento, avulso dal contesto, non soltanto non risolve i problemi di un Sistema Complesso ma tende a moltiplicarli: un’assenza ingiustificata che crea disservizio all’utenza o disagio ai colleghi è un esempio classico di questo errore di metodo.

L’analisi di questi quattro punti produce in genere un cosiddetto Progetto di Sistema. Attenendoci all’esempio precedente, un Sistema ben progettato è quello che riesce a risolvere la maggioranza delle situazioni critiche: è possibile ipotizzare che un medico poco votato alla causa si assenti dal servizio per un periodo di tempo più o meno prolungato, ma è improbabile che il 100% dei medici di un reparto si assentino contemporaneamente. Un buon Progetto deve pertanto tener conto della situazione più probabile (l’assenza imprevista di un medico), non di quelle improbabili (l’assenza di tutti i medici nello stesso momento). La logica del sistema deve pertanto costruire scenari in cui il punto di congestione del Sistema sia sempre sufficientemente lontano. Tuttavia un Sistema Complesso può arrivare lo stesso al punto di congestione: ciò accade quando la probabilità bassa di eventi critici valutata al momento della progettazione si accresce più o meno all’improvviso oppure viene colpevolmente sottovalutata. A metà degli anni duemila era già chiaro a tutti che negli anni venti si sarebbe realizzata una crisi strutturale del SS, legata alla carenza di medici: non soltanto non sono state prese misure adeguate per tempo (calcolo dei medici implicati nella gobba pensionistica; calcolo del fabbisogno del territorio in relazione ai medici specialisti prodotti dalle Scuole di Specialità di riferimento regionale), ma ci si è lasciati arrivare così vicini al limite di congestione che l’utente ha cominciato a ricevere un servizio insufficiente. Accanto agli altri criteri di implementazione tecnologica (definizione delle prestazioni, caratteristiche delle misurazioni, trasmissione delle informazioni, elaborazioni dei dati) il decisore ha dimenticato il criterio fondamentale: la gestione del personale.

Il SS, a dire il vero, ha provato a modificare in corsa la sua struttura. Il problema della centralizzazione/decentralizzazione, con la differenziazione degli ospedali in hub e spoke, è stato un tentativo maldestro di ovviare alla crisi del sistema e non ha risposto alla domanda fondamentale: è più vantaggioso un sistema centralizzato (pochi ospedali di grandi dimensioni dove affrontare le problematiche cliniche di grande complessità) o un sistema decentralizzato (un ospedale in ogni centro abitato con almeno 25000 abitanti, atto a risolvere la grande maggioranza dei problemi di media e bassa complessità)? La tecnologia ha portato a ipotizzare modelli ibridi, basati sulla telemedicina, ma il Sistema per sua natura resiste ai cambiamenti. Staremo a vedere cosa accadrà, stato di emergenza, sindacati e società scientifiche permettendo.

Dicevamo che ogni Sistema Complesso ha un obiettivo primario: in sanità, la salute dei cittadini. Anche qui senza scendere nel dettaglio, che sarebbe noioso, esistono misure di efficienza delle modalità con cui ogni Sistema realizza il suo obiettivo, fondate su noti meccanismi di feedback (più o meno gli stessi, per capirci, che partecipano al processo del budget aziendale per individuare gli scostamenti dagli obiettivi concordati). Però dovremmo metterci d’accordo per stabilire quali sono gli indicatori più efficaci. Per esempio, restando in ambito sanitario, si può considerare prioritario il numero di prestazioni effettuate da un reparto di Radiologia o il livello qualitativo delle stesse? È lecito pensare che un reparto sia ottimizzato quando produce prestazioni sanitarie in numero sempre crescente, con una logica da produzione industriale, o quando le riduce, laddove la riduzione sia legata all’eliminazione delle prestazioni inutili e/o dannose per il Paziente, permettendo al tempo stesso al medico di dedicare maggior tempo ai casi di maggiore complessità? 

La questione degli indicatori è di fondamentale importanza, e spesso risente dell’influenza nefasta di certa politica per la quale il segno + prima di una cifra percentuale è un tesoretto da spendere quando vengono misurati i livelli di apprezzamento del politico di riferimento o ci si avvicina alle elezioni. Come scrive Roberto Vacca (3): “L’affermazione che una soluzione sistemistica è ottimizzata ha spesso carattere propagandistico e ha lo scopo di creare l’impressione che il sistema di cui si parla è il migliore possibile”. Tuttavia la questione degli indicatori è fondamentale perché lo scopo del progetto di un Sistema Complesso non è ottenere il risultato migliore da un singolo sottocomponente del sistema stesso, ma permettere l’interazione più efficace tra i vari sottocomponenti. Cosa si fa, per esempio, se i medici di un reparto non sono soddisfatti e motivati? Come si può pensare di risolvere il problema di una Struttura Complessa se uno dei sottosistemi è in sofferenza?

Alla fine, un Sistema Complesso è ottimizzato se il suo funzionamento risponde al 100% delle esigenze che il Sistema stesso deve soddisfare. Il guaio è che non esiste un’unica soluzione adeguata al problema dell’ottimizzazione, perché le variabili in gioco sono troppe, ed è chiaro che quando il decisore politico propende per decisioni istintive o intuitive, spesso nel tentativo di parlare alla pancia dell’elettorato, sta scartando radicalmente intere classi di soluzioni possibili e rinuncia, pertanto, alla loro valutazione analitica. Ancora Vacca (4): “Molti amministratori di progetti sistemistici sopravalutano il significato delle procedure di documentazione destinate a registrare e controllare le specifiche, il progetto, le varianti e l’avanzamento del sistema che si vuole realizzare e finiscono per confondere il mondo cartaceo, rappresentato da quelle procedure, con il mondo reale o, addirittura, trascurano l’esistenza del mondo reale ritenendo vero e importante solo quello cartaceo: si realizzano, così, sistemi coerenti e funzionanti sulla carta, ma divorziati dalla realtà e in gran parte inutili”. Il rischio, quindi, è che i vari “cruscotti” aperti sulle prestazioni di un sottosistema del Sistema Complesso, i quali hanno nel tempo sostituito il cartaceo, allontanino il decisore dalla realtà dei fatti fornendogli un quadro della situazione ottimizzato nella teoria ma deficitario nella pratica. Salvo il caso, ancora peggiore, che il decisore usi dati adulterati per perseguire scopi non propriamente ortodossi.

Il che, in tempi di crisi, ci conduce alla domanda finale, quella che andrebbe portata sui tavoli della politica per ottenere una gestione finalmente definitiva del SS: l’effettiva realizzazione di un Sistema appena soddisfacente è o no preferibile a un Sistema migliore che raggiunga il risultato dopo troppo tempo e/o a un costo maggiore? In definitiva, parlando di Sistemi Complessi, è preferibile l’ottimizzazione o l’adeguatezza? 

È questa la domanda a cui la Politica è chiamata a rispondere, che lo voglia o meno.


(1) Si può definire “punto di congestione” lo stato in cui il Sistema Complesso non riesce a erogare in modo soddisfacente per l’utenza il servizio per cui è stato progettato.

(2)  Il “cruscotto aziendale” è uno strumento informatico che consente la gestione semplificata ed efficace dell’attività di una Azienda, permettendo al management di effettuare un’accurata misurazione e un completo monitoraggio dei principali indicatori di efficacia, efficienza, performance e qualità, in modo da consentire loro un’analisi consapevole circa l’andamento delle azioni intraprese e la scelta di decisioni basate su dati oggettivi e concreti (modificato da https://www.taleteweb.it/applicazione/cruscotto-direzionale).

(3)  Roberto Vacca, Il medioevo prossimo venturo – La degradazione dei grandi sistemi. Arnoldo Mondadori Editore, 1971.

(4) Ibidem.

Al citofono in un sacco di parole tutte a caso, nei baci di Giuda, o il pane che butti

In questi due lunghissimi anni di pandemia mi sono chiesto tante volte, inutilmente, quale fosse la causa dello scollegamento patologico tra intere porzioni del consorzio umano, tra persone abituate a vivere insieme da millenni. Ho posto la stessa domanda tante volte, quasi a chiunque, e non ho ottenuto risposte plausibili.

Stamattina, guardando gli aggiornamenti sulla guerra che abbiamo vicino casa, mi ha fulminato il cervello una parola: fiducia. È così da quando il primo uomo primitivo ha temuto che il membro della tribù nemica potesse portargli via il fuoco e gli ha spaccato la testa con una pietra. Non è cambiato nulla da allora: il problema è la fiducia.

La radice etimologica comune fid- delle lingue neolatine deriva dalla radice greca peith-, da cui originano il verbo peithoˉ (convincere) e il sostantivo pistis (fede), che a sua volta ancora deriva dalla radice sanscrita bandh- (legame, corda).

L’etimologia della parola ci insegna quindi che la fiducia nasce da un legame stretto; e anche che questo legame, per funzionare, deve essere convincente per entrambe le parti in causa. Cos’è andato storto, allora? Cosa ha reciso i nostri legami? Cosa rende insufficiente la fiducia che ispiriamo al prossimo?

Potrei pensare, a istinto: perdiamo la fiducia quando temiamo di perdere qualcosa, o non riusciamo a ottenere quello che vogliamo. Alla base della perdita di fiducia ci sarebbe quindi l’egoismo: che deriva dal latino ēgo (io) e indica, secondo il Treccani, “l’atteggiamento di chi si preoccupa unicamente di se stesso, del proprio benessere e della propria utilità, tendendo a escludere chiunque altro dalla partecipazione ai beni materiali o spirituali che egli possiede e a cui è gelosamente attaccato”.

Ma non è così semplice. La fede implica la disponibilità a contare su qualcosa che non puoi vedere né toccare. È un atto di abbandono, di affidamento (ancora quella radice etimologica) a qualcosa o qualcuno della cui affidabilità (e ancora), a differenza del risultato finale, siamo ragionevolmente certi.

Noi umani abbiamo una particolarità che più delle altre ci distingue dalle bestie: la capacità di raccontare storie. Lo facciamo da sempre, lo facciamo perché ci diverte, perché siamo annoiati, perché narrare storie è stato per anni il solo modo di trasmettere ricordi e conoscenze di una famiglia, un popolo o un intero pianeta. Assimilare la voglia (o il bisogno) di raccontare o ascoltare storie a una forma estrema di egotismo, in chi racconta, o di estrema ingenuità, in chi ascolta, è negare la fede (rieccoci) che abbiamo sempre avuto nella letteratura, da Omero in poi. È negare Dante, Tolstoj, Calvino. Equivale a negare che un essere umano sia tale, e regredire alla bestialità dell’animale che vive senza rendersene conto.

Le storie, come dico e scrivo da anni, ovunque, vanno raccontate. Raccontate-e-basta. Non importa chi le racconta, e come: forse è più importante il perché le voglia raccontare, ma neanche le motivazioni sono così determinanti perché alla fine abbiamo la libertà di leggere o meno quella storia, e di credere o meno a quello che leggiamo. Anche se raccontare storie, fossero anche un reportage di guerra o un resoconto dettagliato sul complotto mondiale ai danni della povera gente, implica un contratto di fiducia tra chi ascolta e chi narra. Confondere il desiderio di raccontare una storia con un irrefrenabile impulso narcisistico frantuma la fiducia di cui stiamo parlando e ci fa regredire, immediatamente, a uno stato primitivo.

E quindi? Cosa dovremmo fare? Io non lo so, davvero. Posso ipotizzare che la mancanza di fiducia, alla fin fine, sia legata al fatto che intravediamo negli altri le nostre stesse debolezze, e ne abbiamo timore. O che la paura di affidarci, per una miriade di motivi personali, sia così forte da condurci a posizioni preconcette. O che la felicità degli altri ci fa paura, e allora bisogna demitizzarla. O, ancora, che abbiamo obiettivi da raggiungere a ogni costo. Forse accadono tutte queste cose insieme, quando un esercito varca un confine e si mette a sparare a tutto ciò che si muove. O quando finiscono un’amicizia o un amore. O quando si smette di credere che una soluzione alternativa sia sempre possibile.

Ma l’alternativa è possibile solo se esiste un legame forte, se si è legati da quella famosa corda di cui narra, appunto, la radice sanscrita della parola “fiducia”.


La canzone della clip è “Chitarre blu”, l’ultimo singolo di Fulminacci (2022).

Mi fai la Tac? #caso clinico addome diretto – soluzione

Dopo qualche insolita discussione sull’opportunità o meno di postare in rete immagini radiologiche, sia pur anonimizzate, per scambiarsi informazioni e trasmettere la propria esperienza personale, in un metaverso in cui ormai i fatti di (quasi) chiunque sono spiattellati in bella vista su qualsiasi social, e farmi riflettere sul fatto che tutto sommato i blog – proprio in virtù della loro ormai declinante fama – sono ancora un luogo migliore di FB per discutere di medicina, ecco finalmente la discussione del caso.

Il punto chiave, al solito, è da ricercarsi nella proiezione a Paziente supino. È lì che in genere troviamo informazioni sulla sola cosa che conta veramente, la stessa che in genere viene trascurata dal 99% dei radiologi: il morfodinamismo intestinale.

Nel caso specifico, nella sede in cui il Paziente lamenta il dolore (ipogastrio-fissa iliaca sn) si vedono anse prive di tono ma non eccessivamente dilatate, così ravvicinate tra loro da conformarsi le une alle altre come palloncini in una scatola di scarpe. In queste anse, come si può vedere nella proiezione tangenziale, non ci sono livelli. Non c’è quindi sofferenza d’ansa, di tipo peritonitico o meno, e si tratta quindi di un pattern riflesso: in questo caso specifico di ileo riflesso ipotonico. Come tutte le risposte riflesse, può trarre in inganno perché talora è svincolata dalla causa che la determina e dipende invece solo dal sintomo dolore: anche un infarto del miocardio può dare, passato il giusto tempo, un ileo riflesso ipotonico generalizzato. Ma questo è settoriale: stiamo quindi parlando di un gruppo di anse (le anse “sentinella”) che si attivano (o, per meglio dire, si disattivano) per indicarci che il problema è proprio lì, nelle loro immediate vicinanze.

Le anse sentinella sono segno (quasi) inequivocabile di ileo riflesso ipotonico.

Ma se esistono anse sentinella devono per forza esistere cause che le hanno determinate, e devono trovarsi più o meno nella stessa area anatomica. Poco lontano, infatti, dove ci aspettiamo il decorso del sigma, c’è un segno ingiustamente trascurato: il thumbprinting sign (segno dell’impronta del dito). Questo segno compare quando le pareti di qualsiasi viscere, per qualsiasi motivo, subiscano un ispessimento patologico: lo si può trovare infatti nelle IBD, nelle coliti, nelle neoplasie e, come in questo caso, nella diverticolite acuta.

Thumbprinting sign: il viscere, qualunque esso sia, ha le pareti ispessite. L’aspetto radiologico è quello di un blocco di creta in cui un bambino si diverta a fare pressioni successive con le dita, creando avvallamenti e creste che si succedono per tutto il tratto patologico.
Particolare sul thumbprinting sign: a volte invertire la scala dei grigi permette all’occhio umano di vederci meglio.

Queste due informazioni, anse sentinella e parete del sigma ispessite, giustificano l’esecuzione di una TC urgente. La quale mostra, ma ce lo si aspettava perché tutti i segni clinici andavano in quella direzione, e sebbene un ecografista non di formazione radiologica avesse escluso problemi al sigma, la nostra diverticolite acuta.

Allora proviamo a tirare qualche conclusione. I morfodinamismi intestinali hanno il seguente andamento:

Modificata dall’articolo del professor Grassi, l’unico che dagli anni ’80 ha avuto il buon senso di riportare l’attenzione su un argomento snobbato (ingiustamente) da tutti quelli che hanno pensato: c’è la TC che risolve tutti i nostri problemi.

Qualunque sia la noxa patogena, anche extra-intestinale, l’intestino risponde sempre allo stesso modo: entro 3-4 ore aumentando il tono muscolare di parete, quindi contraendosi ed espellendo tutta l’aria; entro 10-12 ore facendo la cosa opposta, cioè mollando il tono e dilatandosi. Non eccessivamente, ovvio, e senza livelli ideo-aerei perché, al momento della risposta riflessa, non c’è ancora sofferenza d’ansa. Se il problema dovesse autolimitarsi l’ileo riflesso anatomico regredirebbe, ripristinando il regolare morfodinamismo intestinale. Se invece non dovesse regredire, e nel caso specifico l’evoluzione della diverticolite dovesse essere negativa (perforazione viscerale, per esempio, e comparsa di peritonite), evolverebbe verso uno dei due pattern patologici principali: in questo caso, per il coinvolgimento flogistico del peritoneo, l’ileo paralitico. Magari passando per una fase intermedia in cui è talora possibile osservare nello stesso radiogramma anse tenuali paralitiche (quelle adiacenti alla diverticolite) e anse tenuali ipertoniche (quelle a monte, che siccome l’intestino è fondamentalmente stupido ragionano in termini di occluso-non occluso, qualunque sia la causa, e si impegnano per vincere l’occlusione nell’unico modo che conoscono: mostrando i muscoli). Questo pattern va sotto il nome di ileo misto: quando ancora i chirurghi non avevano a disposizione la TC, che oggi li solleva da decisioni drastiche e basate sulla sola clinica, era sufficiente a condurre il paziente in sala operatoria.Perché? Perché, qualunque fosse la causa dell’addome acuto, il chirurgo era certo di poter salvare una parte dell’intestino: quella ipertonica, appunto, che per definizione è ancora vitale.

Dice: ma non era meglio fare subito una TC e togliersi il dubbio? È l’obiezione che mi ha subito fatto il mio collega urologo, il quale molto simpaticamente ha paragonato l’Rx addome diretto all’uso delle sanguisughe nella medicina di fine ‘800. L’obiezione è ovviamente sbagliata: nel caso specifico della signora novantenne, una TC in più non fa molta differenza per la salute del paziente. Ma se il paziente invece fosse giovane e noi fossimo in grado non tanto fare una diagnosi precisa, che è difficile basandosi sulla sola radiografia, ma escludere grazie all’Rx addome diretto l’esistenza di un problema addominale acuto? E che nel contesto di un quadro clinico di un certo tipo si può decidere di aspettare e stare a vedere che succede? Non avremmo risparmiato al giovane paziente, o alla giovane paziente, un’esposizione radiante inutile e ingiustificata?

Il problema della refertazione dell’Rx addome diretto, lo dirò fino allo sfinimento, è speculare al problema della refertazione dell’Rx torace. Con quest’ultimo tendiamo a dare una marea di falsi positivi, che conducono inesorabilmente il paziente a TC inutile/dannose. Con l’Rx addome diretto tendiamo a dare una marea di falsi negativi, quando invece una lettura più accurata di segni a volte molto sottili, e soprattutto la conoscenza della fisiopatologia intestinale, possono evitare esami inutili a una popolazione giovane che prima o poi dovrà fare i conti con la sovraesposizione radiante: sulla pagina AIRC dedicata al problema (https://www.airc.it/cancro/informazioni-tumori/cose-il-cancro/radiazioni-ionizzanti-cancro) i non addetti ai lavori possono trovare spiegazioni elementari del problema. Con buona pace del mio valente urologo.

Mi fai la Tac? #caso clinico addome diretto

Arrivo alle 8 di mattina in reparto. Il collega radiologo di turno in TC è in lieve ritardo: niente paura, ti copro io.

Dopo qualche minuto telefona un collega del PS. Dice: Mi serve una Tac per una signora di 90 anni con mal di pancia.

Io, che prima del caffè mattutino sono intrattabile, chiedo lumi. Va da sé, immagino, che non devo averli chiesti con grazia.

Lui, che è un dritto e mi conosce bene, dice: Guardami almeno l’addome diretto di ieri sera!

Io lo guardo e rispondo: Scusa, hai ragione, mandami subito la Paziente.

Perché di colpo divento un agnellino? Cosa mi convince della bontà delle argomentazione del collega del PS? Da notare che la Paziente, oltre ad avere 90 anni, ha algie addominale in ipogastrio-fossa iliaca sn dalla sera precedente, più o meno a partire dalle 22. L’addome è trattabile ma la palpazione profonda evoca dolore dove prima specificato, con Blumberg negativo. Indici di flogosi mossi, ma non troppo. Non iperpiressia.

PS Perché torno a mostrarvi casi di Rx addome diretto in urgenza? Perché fioriscono pagine facebook e siti internet dove sono mostrati casi iperspettacolari ma senza nessun ragionamento clinico-radiologico, e io il culto dell’immagine-radiologica-fine-a-se-stessa, alla mia età, non lo tollero più. E nemmeno tollero, dopo due anni di sconfortanti webinar, che mi si parli di argomenti senza averne cognizione di causa. E allora ecco le immagini, e ditemi cosa ne pensate e perché ho deciso seduta stante di accettare la proposta d’esame del valente prontosoccorsista.

Tu sei proprio la parte di me che non posso lasciare andare

Io non sono mai stato tra chi ha stigmatizzato i medici che scelgono di lavorare nel privato. È una scelta legittima, onesta. A volte una scelta obbligata, se si hanno problemi personali di un certo tipo. In alcuni centri privati si lavora bene come in ospedale, a volte persino meglio. E oggi come oggi, inutile negarlo, la scelta di lavorare in privato è più vantaggiosa sotto molti punti di vista, primo tra tutti quelli economico. Ma c’è un punto, uno solo, che sull’argomento non mi va giù. E oggi voglio parlare proprio di quello.

Di recente uno dei consulenti esterni che collaborano col mio reparto, in questo tempo di vacche magre, chiacchierando con una collega le ha chiesto: “Ma tu che ci fai in questa palude?”

“Palude”, nell’accezione adoperata dal libero professionista in questione, riferita all’ospedale pubblico, è un termine chiaramente, indiscutibilmente, inequivocabilmente dispregiativo. La palude è per definizione un luogo malsano, lurido, sterile. La palude bisogna evitarla, nasconde l’insidia delle sabbie mobili, il pericolo mortale della malaria. Una palude, per definizione è abitata dagli orchi. Non dagli uomini.

Peccato però che, in questo caso specifico, il termine “palude” significhi anche tante altre cose. Per esempio.

La “palude” è quel luogo in cui da studente universitario sognavo, un giorno più o meno lontano, di poter lavorare: l’ospedale. Da quando misi piede per la prima volta in un’aula universitaria, per la lezione di chimica, il mio sogno è sempre stato quello. Anche quando ancora non sapevo cosa avrei fatto da grande (l’internista, il chirurgo o se, come poi è successo, altro), ero certo che sarei stato un medico ospedaliero. Appena assunto in ospedale, nel 1999, provai un lungo brivido di gratitudine mista a orgoglio personale: ce l’avevo fatta, ero proprio nel luogo dove avevo deciso di arrivare. Nessuno, all’epoca ne ero certo, avrebbe mai potuto allontanarmi dall’ospedale.

La “palude” mi ha permesso di sostentarmi dignitosamente grazie a un mestiere che non ho mai smesso di amare. Mi ha messo al fianco di colleghi capaci di insegnarmi il mestiere, prima di ogni altra cosa, ma spesso anche a vivere. Mi ha consentito di conoscere centinaia, migliaia di pazienti a cui forse sono riuscito a fare del bene, e dai quali certamente ne ho ricevuto altrettanto. 

La “palude” mi ha garantito una formazione e una crescita culturale adeguate alle circostanze. Mi ha fatto diventare così bravo in quello di cui mi occupavo da essere chiamato a parlare in giro della mia esperienza lavorativa, e a condividerla con gli altri colleghi di ogni parte d’Italia.

La “palude” è quel luogo in cui coloro che adesso la disprezzano, in tempi non sospetti, al pari dei loro padri e nonni medici, avrebbero dato via un rene per poter lavorare. In tempi non sospetti gente del genere ha accettato qualsiasi, e dico qualsiasi, tipo di compromesso pur di ottenere la fatidica assunzione a tempo indeterminato in ospedale, uno qualunque, anche il più micragnoso. Dite che adesso però l’ospedale è una palude e non conviene più sbattersi per sguazzarci dentro? Può essere. Ma attenzione: che la ruota, per sua stessa natura, gira.

Tutto questo non basta a rendere l’ospedale un luogo degno di essere vissuto? Evidentemente, al momento attuale, no. Perché è chiaro: non tutti hanno scelto di fare i medici per passione. Magari qualcuno ha dovuto per insistenze familiari, perché aveva il padre e il nonno, zii e cugini a loro volta medici. Qualcun altro per il miraggio del buon guadagno o della posizione sociale. Qualcun altro ancora la passione l’ha persa per strada: ricordo ancora le parole terribili di un anestesista, durante una lunga notte di guardia. Aveva uno sguardo infinitamente triste mentre pronunciava queste parole: “Non riesco a smettere di maledire il giorno in cui ho scelto di fare questo lavoro”.

Tuttavia, quale che sia il motivo, non tutto può ridursi a una questione di soldi. E la mera questione economica non può mettere nessuno nella condizione di stigmatizzare la scelta di un collega ancora convinto che il mestiere del medico non si riduca nel fare più soldi possibile con meno sbattimenti possibile, ma abbia a che fare con la cura del prossimo, la costruzione di rapporti duraturi sul luogo di lavoro, la crescita personale come medici e come individui. Anche perché il giorno in cui tutti costoro avranno bisogno di cure mediche urgenti per se stessi, i loro genitori e figli, gli amici più cari, non li porteranno nei loro studi scintillanti e iperaccessoriati, dove il 95% degli esami sono negativi e si guadagna il triplo che in ospedale. Li porteranno nella palude: che puzza di marcio, certo, ma ha il pregio non secondario di salvare la pelle alle persone che stanno davvero male.

Nelle polemiche degli ultimi mesi tra medici pubblici e privati i secondi hanno chiesto a gran voce rispetto per le proprie scelte. A me sta bene, alcuni di loro sono tra i miei migliori amici e ho grande stima nelle loro capacità, professionali e umane. Ma il rispetto deve essere reciproco, necessariamente reciproco, altrimenti finisce a schifìo. Anche se poi, a ben pensarci, rischiamo che finisca a schifìo lo stesso. Perché questo stato delle cose, alla fin fine, sta bene a tutti: ministri, politici, sindacati, e forse anche ai medici stessi.


La canzone della clip è “Hard to say I’m sorry”, dei Chicago, dall’album “Chicago 16” (1982). Molti anni fa, molti lenti fa.