Cavalcare la tigre


C’è stato un mood predominante, in questo 2021: cavalcare la tigre. Approfittare della situazione di crisi. Trarre vantaggio dai disagi altrui.

Si sia trattato di:

  • medici, con già alle spalle un oscuro passato da polemisti, passati definitivamente alla deriva dell’antivax;
  • virologi abilissimi a contraddirsi (a vicenda, ma anche a contraddire se stessi) pur di ottenere l’ospitata nel programma di prima serata televisiva;
  • filosofi, politici et similia, che avevano appena mandato alle stampe il loro ultimo instant book o che rischiavano di passare nel dimenticatoio;
  • pseudo-scienziati e le loro cure rivoluzionarie contro Covid, tumori, eczemi, ginocchio della lavandaia (cure costosissime, acquistabili direttamente dal loro sito internet);
  • capipopolo e masanielli vari, balzati dalla oscura mediocrità di una vita qualsiasi agli onori della cronaca;
  • femministə dell’ultima ora o di qualche ora prima, che hanno costruito una carriera e una visibilità personale sulle trappole pubblicamente tese allo sprovveduto di turno;
  • buonisti a oltranza, per i quali ogni battaglia sul politicamente corretto vale una copia venduta in più dell’ultimo romanzo, la speranza di venderne in futuro, o alla meno peggio un altro follower sulla pagina FB;

è tutto uguale, non c’è alcuna differenza, lo scopo è sempre l’interesse personale, il cosa-me-ne-viene-in-tasca. Qualcuno più lucidamente, qualcuno meno, qualcun altro perché gli è impossibile tornare sui propri passi, ma tutti accomunati da questa grande, immensa, spietata fame di fottere il prossimo per trarne vantaggio. In qualsiasi forma, in qualsiasi modo. A qualsiasi costo.

In questo 2022 aprite finalmente gli occhi, vi prego. Ricominciate a non fidarvi del primo che passa per strada: tutti hanno un fine ben preciso, nessuno fa nulla per nulla, e soprattutto a nessuno di costoro fotte niente, ma veramente niente, di voialtri.

Ooh, ci vuole ogni genere di persone a fare ciò che la vita più o meno è, sì

Questa è una storia, breve e intensa, di un paziente stronzo. Uno di quelli che nessun medico vorrebbe mai curare. Uno che non vorresti nemmeno come vicino di casa, perché sicuramente trasformerebbe le riunioni di condominio in storie dell’orrore alla Stephen King. La storia risale al 2011 e, come vedrete alla fine, non è ancora finita. Dieci anni dopo.

Il peggior paziente del mondo nel 2011 venne operato a un polmone: dopo aver fatto smadonnare un intero reparto di chirurghi e pneumologi, dai quali pretendeva tutto e subito. Come talora capita, l’intervento fu impeccabile ma il decorso post-operatorio no: nel suo torace si formò un empiema pleurico, una specie di sacca purulenta che lo ridusse in condizioni pietose. Dopo vari tentativi terapeutici, liti con le infermiere, minacce di ritorsioni medico-legali e tutto quanto di sgradevole un paziente possa rivolgere alla struttura ospedaliera che lo ospita, il chirurgo mi chiamò e mi chiese di mettere un drenaggio in quell’empiema pleurico. Non prima di avermi avvisato: “E’ un paziente difficile, stai molto ma molto attento”.

Io, che sono un ottimista naturale, lo accolsi in Tac con un sorriso. Mi sedetti accanto a lui e gli spiegai cosa avremmo dovuto fare. Lui non era messo bene: febbre alta, colorito cereo, non stava nemmeno in piedi. Dopo avermi ascoltato replicò che per nessun motivo al mondo si sarebbe fatto mettere le mani addosso da me.
“Ci sono altri modi di guarire l’empiema” disse. “La sua manovra è pericolosa e io non voglio morire in questo modo”.
“Pazienza” gli dissi. “Se cambia idea mi trova qua”.

E la mattina dopo, forse perché le sue condizioni erano ancora peggiorate e si temeva il peggio, il paziente cambiò idea. Tornò in Tac, io mi siedetti di nuovo accanto a lui e gli rispiegai cosa avremmo fatto. Punto per punto. E gli dissi anche quello che dico a tutti i pazienti che arrivano in Tac per procedure interventistiche: “E’ qualcosa che dobbiamo fare insieme, lei e io. E ho bisogno del suo aiuto, non si metta in testa che io riesca a fare tutto da solo”.
E il paziente stronzo, miracolosamente, mi aiutò. Strinse i denti quando usai i dilatatori, il 7, poi l’8, il 9, il 10; fino al 14 che, credetemi, non è proprio sottile come uno stuzzicadenti. Strinse ancora di più i denti quando infilai il drenaggio, li strinse quando cominciai ad aspirare la schifezza che ristagnava dentro quell’empiema. Durante tutta la procedura gli comunicai sempre, con un istante di anticipo, quello che stavo per fare: e lui mi appoggiò, dettò i tempi, a volte mi chiese di continuare e altre di aspettare qualche istante per poter rifiatare.

Alla fine la procedura durò quasi un’ora: che è davvero tanto, per un drenaggio toracico, credetemi sulla parola. Quando fu di nuovo sul letto gli strinsi le mani, gli dissi che sarei andato a trovarlo in reparto e che al successivo controllo Tac sarebbe stato dieci volte meglio di ora. Non stavo mentendo, non lo dissi per fargli coraggio. Ho infilato tanti drenaggi, in toraci disastrati dall’infezione, ed è sempre successa la stessa cosa: il miracolo. Per inciso, io non racconto mai balle ai pazienti. Perché se io fossi al posto loro mi incazzerei parecchio.

E lo rividi, infatti, al controllo Tac. Dopo due giorni e dopo altri quattro. La prima volta parlammo: stava già molto meglio, la febbre era scesa e lui si sentiva più tranquillo. La seconda volta mi avvisò il chirurgo perché io ero di guardia in pronto soccorso. “Per favore, vai a seguire tu l’esame” mi chiese. E poi: “Lui vuole solo te”. E io andai. Non lo portarono in Tac con il letto ma con la seggetta a rotelle: capii che avevamo finalmente scollinato. Non aveva più bisogno di essere spostato a braccia, e quasi quasi dal lettino fu capace di scendere con le sue sole forze. E poi, quando mise giù i piedi, mi fece la domanda che nessuno avrebbe mai potuto prevedere.

“Dottore, la posso abbracciare?” mi chiese con un mezzo sorriso.

Io annuii e ci abbracciamo, sotto lo sguardo un po’ imbarazzato di infermieri, tecnici e portantini. Quando si tratta di abbracciare qualcuno, lo confesso, non mi imbarazzo mai. Poi andai in bagno a raccogliere le idee. Mi guardai allo specchio e per un attimo, ma solo per un attimo, mi chiesi se tutto quello sarebbe davvero servito a qualcosa. Poi dal pronto soccorso mi chiamarono al cordless: stava già arrivando un’altra urgenza. Il bello del mio mestiere è che non c’è tempo per pensare. Solo per ricordare: ma dopo, molto dopo, nel silenzio del proprio letto o sotto lo scroscio della doccia serale.


Dieci anni dopo, ma non è la prima volta, quel signore (che ha ancora il mio numero di telefono, pensate), mi ha contattato via whatsapp. Lui ha una casa in Sardegna con un oliveto di proprietà, dal quale ogni anno trae un po’ di olio: quanto basta per il suo fabbisogno personale. “È un olio buono” dice sempre quando decide di portarmene una lattina, con l’espressione soddisfatta di chi sa il fatto suo. Dice: “Io non uso pesticidi né altre sostanze chimiche pericolose per fertilizzare gli alberi”.

Stamattina mi ha portato due latte e abbiamo preso un caffè insieme. Sono passati più di dieci anni e qualsiasi debito di riconoscenza, ammesso e non concesso che ne esistesse uno, è ormai passato in prescrizione. Mi ha raccontato di come si sente, del tempo libero che ha a disposizione adesso che finalmente ha lasciato ai figli l’azienda di famiglia. Ha detto: “Finché sei dentro il vortice pensi di non poter fare a meno del lavoro, poi scopri il valore del tempo e non vuoi sapere più niente di orari e impegni programmati”.

Io ho pensato a quella casa isolata, con i vicini a duecento metri, al silenzio invernale di una Sardegna finalmente libera dall’incubo volgare del turismo. Mi sono visto infagottato in una felpa da montagna e con il Mac sulle gambe, davanti al fuoco, a scrivere il prossimo romanzo. Poi l’ho guardato con attenzione, il mio ex paziente, ancora in forma, ansioso di vita all’aria aperta, capace di macinare chilometri per portarmi una latta del suo olio. E ho pensato che quel momento può ancora aspettare. E che se esiste ancora un motivo per fare il mestiere del medico, in questi tempi cupi, è proprio questo: prendere il caffè con un uomo che forse senza di te non ce l’avrebbe fatta, dieci anni dopo, in una mattina prenatalizia qualunque, in un bar improbabile gestito da una donna cinese gentile e sorridente, come se ci si conoscesse da sempre.


La canzone della clip è “Every kinda people”, tratta dall’album “Double fun” (1978). La copertina dell’album ci mostra Robert appoggiato con i gomiti al bordo di una piscina disseminata di costumi femminili a due pazzi, mentre ride con la sfrontatezza della gioventù (all’epoca aveva trent’anni o giù di lì), ignaro che sarebbe venuto a mancare troppo giovane. Rober Palmer morì a 53 anni, la mia età di adesso, dopo aver registrato a Parigi il suo ultimo album. Siccome è stato uno dei musicisti più sottovalutati della storia del pop-rock è giunto il momento di dare il mio modesto contributo alla sua causa: ascoltate questa canzone, gli arrangiamenti, in particolare l’uso del basso. Perché è proprio vero, come diceva lui, che al mondo c’è bisogno di ogni genere di persone.

Nella mia vita mi perdo, non mento, sono incoerente e lo ammetto, non reggo

Carla (la chiameremo così anche se non è il suo vero nome) mi ha raccontato una storia.

Di recente Carla si reca in un paese straniero per un piccolo intervento chirurgico. In sala operatoria c’è qualcosa che non va per il verso giusto: Carla ha un’emorragia difficile da controllare, va in fibrillazione, la tirano fuori per i capelli da una situazione ormai drammatica.

Poi segue la degenza ospedaliera, che si concretizza in quanto segue:

  • 200€ per ogni notte di degenza;
  • 150 € per ogni singola trasfusione;
  • 270€ per la visita cardiologica;
  • 170 € per il monitoraggio cardiaco.

Insomma, alla fine Carla deve sborsare più di 2000€ per riportare a casa la buccia, e al momento è ancora bloccata all’estero perché il decorso post-operatorio è lungo e faticoso.

E allora, con il suo permesso, lascio parlare lei.

“Quando mi sono sentita male hanno perso tempo a rassicurarsi che io avessi i soldi per pagare l’ospedale, prima di procedere. E se così non fosse stato mi avrebbero lasciata morire”.

“È la prima volta che mi rendo conto di quanto siamo fortunati in Italia ad avere un sistema sanitario che aiuta chiunque a prescindere dal fatto che si possa permettere o meno le cure”.

E poi: “Sorvolo sul fatto che ho ricevuto una scheda medica totalmente inattendibile, che non riportava nemmeno quanto sangue mi sia stato trasfuso e non riportava due giorni di degenza. In Italia per queste cose si fa causa, qui è già tanto se porti a casa la pelle”.

“Non esiste umanità, caso particolare o qualsiasi cosa possa scuotere il cuore di un medico mentre sei in fin di vita. Se hai soldi si fa di tutto per salvarti la vita, se non puoi pagare no”.

Ecco, questo è tutto. Quando noi medici vi ripetiamo, fino allo sfinimento, che dovete essere contenti della vostra sanità pubblica, esserne fieri, orgogliosi, che dovete difenderla a ogni costo, che i medici sono una specie protetta e da proteggere ancora, e che gli errori sanitari sono ben piccola parte rispetto al numero di casi e pazienti condotti a buon fine, è a questo che mi riferisco. E voglio aggiungere un’ultima frase di Carla, forse la più significativa:

“Mi hanno colpito molto le sue parole, ci tenevo a dirglielo privatamente perché io tutta questa umanità l’ho trovata solo nei medici italiani”.

Io non so se questo sia vero, e sinceramente al momento non me ne frega nulla. Io vedo soltanto i miei colleghi in azione ogni giorno, e so che ci mettono cuore, tempra, resistenza e passione. Non tutti, non in modo uguale, ma ce li mettono. L’umanità non è una dote innata: si sviluppa con il tempo se la natura ti ha dotato di un seme da cui può crescere e svilupparsi.

In un medico l’acqua per far germogliare quel seme la mettono i pazienti. E se non la mettono, la pianta secca e muore, lasciando tutti senza frutti.


La canzone della clip è “Amerika”, di Vale LP, stupenda ragazza nata nel mio paese lontano.

Tra le cose non fatte per poi non doversi pentire, le promesse lasciate sfuggire soltanto a metà

“Eppure, se è probabile che gli insegnanti condividano il disprezzo (…) per la formazione in quanto strumento, è improbabile che la maggioranza degli studenti si associ a tale disprezzo. Per la maggior parte di questi ultimi l’istruzione è prima di tutto e soprattutto una via d’accesso al lavoro: tanto meglio, quindi, se il varco è più ampio e se i premi alla fine della sfacchinata sono più attraenti”.

(Z. Bauman)

Questo spunto di riflessione è diretto a quanti sono ancora intenti a scalare i vertici dei luoghi di potere usando mezzi e modalità stabilite e generate dal potere stesso e senza aver sviluppato mezzi propri né alcuna reale volontà di cambiare lo stato delle cose. La frase di Bauman si attaglia perfettamente non solo agli studenti in senso tradizionale ma anche a tutti coloro per i quali a contare non è la formazione/crescita culturale in sé, ma il premio alla fine della sfacchinata. Il che permette di capire, incidentalmente, per quale motivo i concorsi per alcune posizione apicali in ambito pubblico, tra le quali quella che ricopro io, vadano sistematicamente deserte: il problema non è la sfacchinata ma il premio finale, che evidentemente non viene più ritenuto all’altezza dello sforzo prodotto.

Non esistono cambiamenti che non contengano in sé una quota di rottura culturale con il passato. Non esistono cambiamenti culturalmente non violenti. La politica dovrebbe farsi carico di questa violenza intrinseca nel cambiamento e canalizzarla, darle sostanza programmatica. Il cambiamento ha bisogno di dissonanza, confronto e scontro, disaccordo, mediazione. E buona fede, soprattutto. tanta buona fede.

Per questo nessun diploma di fine corso può riuscire a migliorare la buona fede dei partecipanti: perché se è vero che la formazione è un strumento, e sull’argomento non sussistono molti dubbi, questo strumento non dovrebbe servire a gestire il bene pubblico come una fabbrica di servizi o, peggio ancora, di utili. La formazione serve a produrre il cambiamento culturale del quale la politica non può aver paura, ma deve avere il coraggio di avvalersi.


La canzone della clip è “Che vita meravigliosa”, di Diodato, dalla colonna sonora del film “La Dea Fortuna” (2019).

Il grande equivoco dell’individualità

Comunità: dal latino communĭtas (comunanza). Secondo il dizionario di Google è “l’insieme di persone unite tra di loro da rapporti sociali, linguistici e morali, vincoli organizzativi, interessi e consuetudini comuni”. Secondo il dizionario Treccani, è anche lo “stato giuridico di ciò che è comune”.

Società: più laconicamente, sempre secondo il dizionario di Google, è un “insieme organizzato d’individui”. Deriva dal latino sociětas, derivato di socius (socio). Anche il dizionario Treccani batte sullo stesso punto: la società è “in senso ampio e generico, ogni insieme di individui (uomini o animali) uniti da rapporti di varia natura e in cui si instaurano forme di cooperazione, collaborazione, divisione dei compiti, che assicurano la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri”. Avete notato la differenza? La comunità è un insieme di persone, la società un insieme di individui.

Ma andiamo ancora oltre. Cos’è un individuo? Sempre secondo Treccani, il termine deriva dal latino individuus (indiviso, indivisibile) e indica “ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie”. L’attributo dell’individuo, come l’atomo di Democrito, è insomma l’indivisibilità. Se teoricamente decidessimo di dividere una società in pezzi sempre più piccoli dovremmo necessariamente fermarci all’individuo in quanto, secondo la felice intuizione di Bauman, “unità più piccola alla quale ancora possibile attribuire la qualità dell’umanità”. Ma attenzione, dice anche Bauman, l’individualità è ciò che ci rende uguali agli altri: gli atomi di ferro, per esempio, sono identici e indistinguibili tra loro. E non va confusa con l’unicità, che in teoria è ciò che ci rende davvero diversi dagli altri. Ne consegue che, paradossalmente, la transizione dal concetto di comunità, in cui le singole persone (uniche, nel loro genere, ma entro certi limiti senza che l’unicità rappresentasse una qualità degna di nota) si univano per il bene comune, a quello di società, in cui i singoli individui si organizzano in forme complesse di organizzazione, ha determinato il transito da “persona” a “individuo” e ha sostituito il concetto di rapporto tra “persone” che mettono in comune qualcosa (beni, consuetudini) con quello di “soci” che, individualmente, collaborano per un qualche fine. In modo molto pertinente il socio, per il dizionario Google, è infatti chi sia “partecipe con altri di una qualsiasi impresa”.

L’ascesa dell’individuo, dice ancora Bauman, è stata la “spia del progressivo indebolimento della fitta rete di legami sociali che avviluppava strettamente la totalità delle attività della vita”. Togliendo forza ai legami sociali, insomma, aumenta la necessità di normare, quindi regolare nel dettaglio, i rapporti tra gli individui. Forse è una naturale evoluzione legata all’aumento del numero degli individui che componevano una comunità, fatto sta che le norme proliferano in carenza – o assenza – di legami sociali forti.

Il paradosso sta nel fatto che la società attualmente interpreta il concetto di “individuo” al contrario, e lo sostanzia nell’invito costante a essere diversi dagli altri. A questo punto è facile cogliere la contraddizione intrinseca al sistema, che è fonte delle schizofrenie di questi ultimi mesi: il compito arduo di distinguersi dagli altri individui, reso impossibile dalla struttura stessa della nostra società (che ci pretende tutti uguali – “ognuno vale uno” – e pertanto intercambiabili), diventa un atto autoreferenziale. La conseguenza di ciò è che il nostro percorso personale non è più mosso dal ragionamento o dal metodo scientifico (che sono imparziali, oggettivi, distaccati) ma dalle sensazioni: che non sono impersonali ma vengono percepite come segni di unicità perché solo “quella” particolare persona ritiene di poterle provare. Ci si può distinguere gli uni dagli altri, insomma, non sulla base dei dati di fatto (per esempio un talento specifico nel fare qualcosa) ma solo perché siamo in grado di provare sensazioni uniche e irripetibili. Da cui, immagino, il successo strepitoso dei social: una vetrina in cui la ragione non ha motivo di essere esposta ma ha visibilità solo il sentimento, la sensazione personale come epitome di unicità.

Questa premessa determina un’altra inevitabile conseguenza: se ci appoggiamo alle sensazioni e non alla ragione oggettiva, nella interpretazione/creazione della realtà, abbiamo bisogno di interlocutori che ci rassicurino sulla fondatezza delle nostre conclusioni arbitrarie: è questo il motivo per il quale tendiamo a dare fiducia istintiva e immotivata ai comunicatori di professione (influencer, fenomeni del coaching, motivatori, autocertificati esperti del ramo, spesso a pagamento) e ad aggregarci in gruppi composti da individui che la pensano esattamente come noi e che non mettono in discussione argomenti che non potrebbero reggere alla prova del metodo scientifico. Meglio ancora se con questi individui manteniamo rapporti interpersonali, mediati dalla distanza imposta dai social: il rapporto personale, de visu, impone (dice sempre Bauman) che “l’individualità venga affermata e rinegoziata ogni giorno attraverso un’interazione costante”. Il che comporta due sforzi epici: opporsi alla corrente della società, che tende a sottrarci il tempo necessario alle interazioni personali; e quello di mettere in discussione il proprio punto di vista, fondato in genere su sensazioni e non su dati di fatto oggettivi. Chi segue la strada della costruzione di un mondo basato sulle proprie sensazioni ha la tendenza a fuggire dal mondo stesso e a rifugiarsi in una società di individui tutti uguali a lui, che la pensano allo stesso modo, e nella quale si può finalmente sentire al sicuro. Immaginate che genere di battaglia interiore deve condurre una persona che lotta quotidianamente per far emergere la propria individualità finendo poi per far parte di una schiera di soldatini irregimentati a un qualche pensiero unico. Per forza che poi sbroccano e fanno le barricate contro il vaccino.

È un discorso complesso, me ne rendo conto, ma forse è l’unico in grado di fornire qualche indicazione su quello che accade ogni giorno, da mesi, nelle nostre vite, e che sta conducendo la società stessa a una violenta disgregazione. La soluzione, immagino, sta nella risoluzione dell’equivoco dell’individualità: se siamo individui non possiamo essere unici, e se vogliamo essere unici l’unica soluzione sta nel tornare comunità, quindi un’aggregazione in cui la norma non sia regola ma eccezione. E in cui, invece, la regola siano la fiducia reciproca e il ragionamento oggettivo sul bene comune. Certo, osservando la proliferazione delle norme in ogni campo delle nostre vite non c’è da essere ottimisti. Se penso al mio lavoro, e a quanto ogni suo aspetto sia minuziosamente e quasi schizofrenicamente normato, mi metterei a piangere: ormai lavorare è diventato motivo non di gioia, ma di terrore continuo.

Per cui non rimane che sperare in un miracolo. L’emergenza sanitaria non ha affatto diviso la gente: ha solo reso evidente che una parte ragionava ancora in termini di “comunità” e un’altra, più consistente, in termini di “società”. Parlavamo due lingue diverse già prima del covid, insomma. Il problema è che adesso parliamo tutti insieme, e non si capisce più niente.


Lo spunto per la riflessione è dato dalla illuminante rilettura di “Vita liquida”, di Zygmunt Bauman, Laterza Editori (2005).