Cronache del virus fetente #30

Questo è il fulgido esempio (uno dei tanti, in realtà) di come la maggior parte della stampa nostrana si sia mossa dall’inizio dell’emergenza: con lo scopo di disinformare, confondere le acque, dividere, spaccare. In ultima analisi, forse, e più tristemente, con l’obiettivo del titolone da finto scoop per vendere una copia in più del quotidiano.

Notizie come questa deflagrano come mine antiuomo un un campo già pieno di cadaveri. Quale informazione vorrebbero veicolare? Che la no-vax morta per covid se l’è andata a cercare e quindi le sta bene? Oppure serve a fare il paio con i 12 addetti della centrale del 118 di Palermo, tutti positivi e in isolamento nonostante fossero vaccinati? In entrambi i casi la notizia è lanciata come un sasso contro una finestra, senza alcun interesse per le conseguenze dei cocci di vetro che finiscono nella stanza. Vedi che il vaccino serve a salvare la vita? Vedi che non serve a niente e ti contagi lo stesso? E così la confusione aumenta, rendendo la vita facile a chi sul divide et impera si è costruito una fortuna.

E allora c’è una sola cosa da ricordare, anzi due. La prima è che nelle emergenze sanitarie contano solo l’andamento generale, i grandi numeri, la statistica intesa come scienza matematica. I singoli casi, fatto salvo il carico di sofferenza che li accompagna, non hanno alcuna rilevanza statistica, non significano niente, non forniscono nessuna informazione attendibile su cosa sta accadendo.

La seconda è che bisogna diffidare di chi deforma la verità per i propri scopi, qualunque sia la parte per la quale tiene. E, più di tutti, diffidare di chi per mestiere dovrebbe fornire notizie e invece finisce solo per generare confusione, panico, spaccature.

Che cosa sognano le fidanzate quando baciano?

Ieri sera, al Seat Music Awards, per festeggiare i 40 anni passati dal Sanremo in cui si era esibita proprio con quella canzone, Loretta Goggi ha cantato “Maledetta primavera”.

Quando mi sono accorto che quella donna di straordinario talento stava cantando in playback ho pensato: Che peccato. Perché qualsiasi versione live, anche la più sgangherata, sarebbe andata meglio del playback e avrebbe reso a questa artista incredibile l’onore che merita. Ma poi la gente dell’Arena si è messa a cantare in coro con lei, lei si è commossa e, santo cielo, ho pensato prima di cambiare canale, si tratta pur sempre di una donna di 71 anni che ha smesso di cantare da tempo, e chi se ne frega se torna sul palco solo per un playback. Lei, che ai suoi tempi era una showgirl capace di far tutto come nessun’altra: cantare, ballare, recitare, imitare.

Stamattina scopro invece che il popolo dei social non l’ha presa bene. Vi risparmio il coro di offese, che si è sovrapposto a quello più benevolo dell’Arena di Verona, e che a quanto pare l’ha spinta a ritirarsi definitivamente dai social, e vi invito invece a considerare tre possibili passaggi per avviarci a una ragionevole guarigione dalle psicosi collettive di questo periodo.

Il primo, obbligato: evitare gli estremismi. Sia quando mettiamo qualcuno sul palcoscenico che quando decidiamo di tirarlo giù a qualsiasi costo: il nostro prossimo, famoso o meno, ci somiglia molto. E tutti soffriamo molto quando ci sentiamo trattati ingiustamente oppure offesi senza motivo. Pensate a come vi sentireste se qualcuno, facendo il vostro nome e cognome, scrivesse su Facebook che la sera della festa di vostro cognato eravate vestite come Moira, la tigre del ribaltabile. O che andasse in giro a dire che sul posto di lavoro valete poco più di zero (e talora si potrebbe, ah, se si potrebbe).

Il secondo: riconoscere il talento altrui e confrontarlo con il nostro, che in genere è molto meno ipertrofico, senza provare vergogna. Si può essere soddisfatti della propria esistenza anche quando si è illuminati di luce riflessa: se la vita non vi ha regalato talenti degni di nota cercate almeno di essere brave persone, che sarebbe già tanto.

Il terzo, più difficile di tutti: evitare di manifestare pubblicamente la propria idiozia. Nel 1981, anno in cui la canzone fu presentata a Sanremo, qualcuno ebbe l’incredibile idea di querelare la Goggi con la seguente motivazione ufficiale: «Con la sua canzone ha buttato fango sulle stagioni e praticato un danno incalcolabile ai bambini, perché chiama “maledetta” la primavera, distruggendo ai loro occhi l’immagine della stagione più bella». Come vedete, insomma, gli imbecilli esistevano anche prima dell’era dei social. Il guaio è che prima si trattava di schegge impazzite delle quali si poteva ridere benevolmente; mentre adesso anche loro hanno un palcoscenico dal quale esibirsi e in gruppo, perché solo in gruppo le iene sono capaci di muoversi, riescono a produrre i danni ingenti a cui assistiamo ogni giorno, increduli e impotenti.


La canzone della clip, contrariamente a quanto tutti vi sareste attesi, non è “Maledetta primavera”. Ho scelto invece “A cosa pensano”, di Alice, tratta dall’album “Azimut” (1982). In quegli anni Alice era al massimo della sua carriera: brava, magnetica, affascinante, la guardavo dal basso dei miei tredici anni con la mandibola che mi pendeva come un australopiteco. Peccato non averla mai potuta incontrare per dirglielo: ero innamoratissimo di lei.

Lamentarsi con moderazione


Avvertenza: la foto che accompagna il post non è per unirmi al coro, sia pur meritato, di celebrazioni per l’atleta in questione. È, al mio solito, un tentativo di ribaltare il punto di vista tradizionale sulla questione.

Fateci caso: ovunque voi siate (supermercato, spiaggia, posto di lavoro, automobile, coda alle poste, casa vostra) è estremamente probabile che qualcuno si stia lamentando. Del tempo, del governo (in genere ladro e canaglia), dei vaccini, di chi non vuole vaccinarsi, del marito o della moglie, dei tempi d’attesa per un esame in ospedale, dei vicini rumorosi, della coda stessa alle poste, del mal di schiena cronico, del figlio che va male a scuola e dei professori del figlio, anch’essi canaglie, che non sanno valorizzarlo. Ci si lamenta dello stipendio, delle ore di lavoro (va detto oggettivamente: in questo sventurato  paese, inutilmente troppe), della maleducazione altrui, dei prezzi che aumentano, dei ristoranti pieni, dei ristoranti vuoti, dei ristoranti chiusi, dei runner paranoidi, dei ciclisti in mezzo alla strada, dei guidatori imbranati, dei neonati che piangono, dei bambini che giocano, dei vecchi che non si decidono a morire e che resistono pure alla pandemia.

Ecco, l’esercizio spirituale che vi propongo oggi è seguente: quando vi torna la voglia di lamentarvi di qualcosa, qualsiasi cosa, dimenticando per qualche istante che anche voi infastidite di continuo, e per gli stessi futili motivi, il prossimo vostro, soffermatevi a guardare per qualche secondo, con attenzione, la foto di Bebe Vio.

Ve lo assicuro, perderete solo pochi secondi: ma avrà del miracoloso.

Dove vai? Vado a farmi il mondo!

Sapete, io ho cominciato a fare il medico in un momento storico nel quale lavorare in ospedale era, per uno come me, la massima aspirazione possibile. Avevamo studiato duro, noi compagni di corso, per quel solo fine: entrare in un reparto ospedaliero, vivere la vita di corsia, indossare il camice bianco, insomma fare-i-medici.

27 anni dopo la nostra laurea il mondo si è capovolto: gli ospedali si sono svuotati, salvo forse qualcuno di quelli più grandi, i medici sono fuggiti nel privato e il privato si è insinuato negli ospedali pubblici per supplire alla carenza cronica degli stessi. Siamo al paradosso: un medico può licenziarsi dall’ospedale pubblico e rientrarvi dalla finestra come libero professionista. Perché dovrebbe farlo? Perché fa lo stesso lavoro ma guadagnando il doppio, il triplo, il quadruplo. Perché non ha più capi o direzioni aziendali a rendergli la vita difficile. Perché magari smette di fare le notti di guardia, oppure continua a farle ma a qualcosa come il 4000% in più di emolumento. 

Delle cause ho già parlato appena prima del Covid, facendomi peraltro mettere gli occhi addosso da chi pretenderebbe una versione perennemente edulcorata della realtà dei fatti. Invece, mi dispiace dover insistere, non va tutto bene. Non-va-tutto-bene.

Ma non è di questo che voglio parlare stasera: la mia lettera semiaperta è rivolta invece ai colleghi che hanno scelto la strada del privato. Non dirò loro che hanno sbagliato per questioni etiche, morali, deontologiche: tutte gran fregnacce, queste, anche se è pur vero che per qualcuno di loro ci sono rimasto veramente, ma veramente male. Farò invece un discorso di carattere generale sul (loro) futuro.

Adesso sembra tutto bello: guadagni facili, niente rotture di palle, le aziende private vi corteggiano come se foste un buon partito per i figli o le figlie degli amministratori delegati. Vi coccolano, addirittura, come a me fu maldestramente suggerito di fare qualche anno fa con chi sceglieva di andar via dal mio ospedale. Ma il mercato ha una caratteristica imprescindibile: per sua natura oscilla. Oscilla assai.

Tra qualche anno quindi accadranno due cose: la prima è che il mercato della sanità privata andrà incontro a saturazione. Sapete a quel punto cosa accadrà? Quando la domanda ha un calo si abbassano i prezzi, lo avete visto con la benzina durante il primo lockdown. Vi chiederanno di fare le stesse cose per meno soldi, tanto qualche disperato pronto a sostituirvi lo troveranno di sicuro, qualora non accettiate. Per guadagnare la stessa cifra dovrete lavorare il doppio, il triplo. Al pari di un globe-trotter, correre da un centro privato all’altro: se il vostro scopo era rimpossessarvi della vostra vita, come disse un altro sciagurato tempo addietro, in cui spero di mai più imbattermi nemmeno per sbaglio, ci sarà da divertirsi.

La seconda è che se le cose continueranno in questa direzione, e vi garantisco che continueranno, l’affare sanitario prima o poi diventerà troppo ghiotto. Prima caleranno i pesci medi, che divoreranno senza pietà quelli piccoli, gli studi radiologici a gestione familiare che hanno fatto grande fortuna negli anni ‘80 e ‘90 ma che adesso, per quantità e qualità di lavoro, sono ai minimi storici e restano ancora in vita solo perché il pubblico agonizza e i malati non si accorgono della differenza. Poi caleranno i pesci grandi, i gruppi esteri, che imporranno a tutti condizioni capestro. Date uno sguardo alla Lombardia, che laggiù sono sempre più avanti del resto d’Italia: scoprirete che è già in atto un accenno di inversione di tendenza dal privato al pubblico. Non guardate invece al sud, per favore, perché in quelle lande politicamente desolate esiste già da decenni quasi solo la sanità privata: le conseguenze di questa deriva politica chiedetele pure a chi ci abita, di certo non a me.

Morale: ci stanno fregando tutti. I cittadini perché resteranno senza più sanità pubblica, o quantomeno con una sanità pubblica rimaneggiata e mescolata col privato. I medici perché dopo avergli tolto guadagni, speranze di crescita professionale, potere decisionale, sicurezza dalle denunce che cadono a pioggia perché pilotate ad arte (ah, la malasanità! Quanto bene vende, vero? Quante famiglie fa mangiare, vero, questa malasanità?). Le cosiddette professioni sanitarie pure, perché si troveranno a svolgere compiti di complessità inaudita ma allo stesso stipendio di prima, o con piccole prebende che verranno ampiamente assorbite dalle costose assicurazioni che infermieri e compagnia bella saranno costretti a stipulare per pararsi le chiappe.

Per cui state attenti, ponderate bene le vostre scelte: tra qualche anno, quando chiederete di rientrare in ospedale, potrebbe non esserci più posto per voi. Salvo che la politica, a tutti i livelli, non getti la maschera e dica le cose come stanno: la salute degli italiani costa troppo ed è economicamente insostenibile. Ma anche in quel caso rischiate di restare fuori dal piatto ricco: se l’attività ambulatoriale verrà tutta esternalizzata ai privati, e non manca molto, resteranno pochi ospedali pubblici con pochi medici (si spera) ben pagati. A quel punto mantenere il vecchio stile di vita sarà difficile: e magari sarete costretti a interminabili notti di guardia, pagate una miseria, nell’ospedale di Frattameggia di Sopra: proprio quello da cui siete partiti, baldanzosi e sicuri di farvi il mondo, come chiosava Tony Manero alla fine di “Staying alive”, solo dieci anni prima.

Che sarei stata buona anche se avessi guadagnato dieci sterline

Esiste sempre un momento preciso in cui una crisi o uno stato di emergenza si cronicizzano: e a quel punto diventano in senso lato istituzionali, la semplice e terribile normalità delle cose. Quel momento, quando arriva, fa il rumore dello scatto di un ingranaggio ben oliato: secco, metallico, inconfondibile. Quando l’emergenza si è strutturata, coagulata nel quotidiano, cristallizzata in forme abnormi ma reali, si possono tenere soltanto due tipi di atteggiamenti, opposti tra loro.

Il primo riguarda, in rapida successione, i concetti di scappare, mollare, abbandonare la nave, cercare di salvarsi la pelle, far perdere le proprie tracce, fingersi morti come gli opossum, cercar fortuna altrove, emigrare nelle Americhe.

Il secondo: resistere, cercare e trovare motivi di soddisfazione nei tentativi donchisciotteschi di opporsi al crollo del sistema, esercitare una forma di resistenza allo sfacelo che ha valore non assoluto, perché siamo tutti piccoli e impotenti, ma relativo alla situazione che si sta vivendo. Il valore, per esempio, che i monaci benedettini davano alla loro regola: ora et lavora. Prega e lavora, e basta, anche se non porterà alcun vantaggio pratico: in questo senso, la maggioranza di noi medici ospedalieri è come i monaci medievali. O come i cavalieri templari: si combatte una guerra già perduta in partenza, viste le premesse, vista l’assenza di programmazione a livello nazionale, visti la miopia e il dolo a livello regionale. Ma la si combatte lo stesso, la nostra fottuta guerra, perché la natura del nostro desiderio non risiede nel risultato finale, nella vittoria della guerra, ma nel combattimento di ogni singola battaglia quotidiana.

Dico questo perché esiste è una forma di piacere sottile, un po’ sadico ma anche un po’ masochista, nel ritrovarsi in pochi nella trincea, e serrare i ranghi. C’è una forma di soddisfazione anomala nel ritrovarsi la mattina, fare il conteggio delle assenze impreviste e prendere il caffè con il collega che sbuffa perché la situazione è difficile ma poi è il primo a prendere di nascosto i tuoi esami e a refertarli al posto tuo. Oppure imbattersi nella collega dal sorriso contagioso, quella che trova sempre il tempo e il modo per strapparti una risata e anche lei, di nascosto, si impegna a sottrarti sistematicamente il lavoro in eccesso con un lavoro silenzioso da formica operosa.

Io non sono convinto che i romani del quarto secolo avessero coscienza della direzione che stava prendendo la loro storia, del declino inesorabile che in poche decine di anni li avrebbe inesorabilmente schiantati e avrebbe aperto le porte di Roma alle invasioni barbariche. Allo stesso modo, in questo momento non ho precognizioni affidabili circa il destino della sanità pubblica: anche se fatico a immaginare un futuro sostenibile in cui i medici tornino a lavorare negli ospedali felici, soddisfatti del loro lavoro, ben pagati, con ritmi accettabili, senza il fiato sul collo di denunce civili o penali da parte di pazienti soddisfatti (pazienti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sarebbero andati incontro a morti più dolorose e spietate di quelle toccata in sorte per gli eventuali errori medici).

Quando vengo a sapere, e lo vengo a sapere sempre più spesso, che colleghi valenti hanno abbandonato carriere affermate per trasformarsi in globetrotters il cui unico fine non sembra tanto l’esercizio in sé della professione ma il miraggio di un guadagno più adeguato alle proprie aspettative, mi torna sempre in mente il principio cardine a cui ho affidato la stragrande maggioranza dei miei ragionamenti e delle mie conclusioni. Nonostante le mie evidenti inclinazioni umanistiche io, tanti anni fa, mi sono imbarcato su una nave battente bandiera scientifica e quindi sono abituato a ragionare col metodo cosiddetto scientifico. E di conseguenza sono addestrato da almeno un quarto di secolo a valutare e le cause dagli effetti che provocano sulla breve, media e lunga distanza.

Quindi penso che l’errore di programmazione possano commetterlo tutti: non siamo esseri infallibili, la nostra capacità di raziocinio e di calcolo non è infinita. Essersi ridotti questa situazione, poco meno di trent’anni dal giorno della mia laurea, implica probabilmente che alla base della crisi del sistema sanitario nazionale non c’è l’errore umano, il calcolo sbagliato, l’errore di valutazione. Ma il dolo.

Ecco, io di questo dolo conosco i volti, i nomi e cognomi, e gli effetti delle loro azioni espressi da leggi, commi, progetti politici folli e a tratti suicidi: e di quello che so mi piacerebbe poter mettere a parte tutti. A ben pensarci, però, è almeno 15 anni lo faccio: ma l’unica conseguenza, quindici anni dopo l’apertura del mio blog e di questo profilo facebook, è che mi ritrovo con molti meno amici e sodali di quanto avrei creduto e sperato, mentre l’impero crolla e noi superstiti della centuria ogni sera ripuliamo il sangue dalle spade e le riaffiliamo per la battaglia del giorno dopo.


La canzone della clip è “That would be good”, di Alanis Morissette, tratta dall’album “Suppodes Former Infartuation Junkie” del 1998.