Li vedo arrivare dalla sala d’attesa, sottobraccio.
Lei è minuta, piegata in due dall’artrosi, e si aiuta con un bastone nel cammino perché zoppica. Lui è altrettanto minuto: ma si vede che nel suo caso è l’età che gli ha accorciato le ossa e contorto le articolazioni. Quando entrano nella sala ecografica lui la accompagna fino al lettino, la fa stendere con cautela, l’aiuta a sollevare le gambe. Lei dice: Posso tenere le scarpe?Certo, signora, certo che può tenerle.
Poi mi raccontano la loro vita, una frase per ciascuno, come se stessero leggendo insieme lo stesso libro. Raccontano di essere stati per anni artisti circensi: lei era l’equilibrista che stava sulla cima alla piramide umana in precario equilibrio sui cavalli in corsa, e così minuta non faccio fatica a credere che fosse la persona giusta per quel mestiere, lui invece era il giocoliere. Serate di successo in giro per l’Europa, soprattutto a Parigi. Figli a loro volta artisti del circo, nipoti sparsi in giro per il mondo che, nei modi permessi dall’implacabile modernità che sta cambiando il mondo, seguono le tracce dei nonni.
Lei è rimasta a casa a crescere i figli per un bel po’ di tempo, mi dice lui. Adesso sono io che devo occuparmi di lei. Lei sorride imbarazzata, forse ricordando con nostalgia quei tempi di gloria e i figli piccoli, e gli stringe la mano. Dice: I nostri figli, adesso, sono loro a occuparsi di noi.
A fine ecografia, per fortuna, mi sembra tutto a posto. Glielo dico e tutti e due, ancora all’unisono, mi sorridono come ragazzini. Lui l’aiuta a prepararsi, le fa indossare il soprabito, le porge il bastone e accoglie il suo braccio. Un secondo prima di uscire lui si gira e mi dice: Dottore, grazie per averci detto che mia moglie sta bene. Perché, sa, io e questa donna siamo legati per la vita.
Io sorrido a mia volta, pensando che questo mestiere è ancora capace di sorprendermi, di cogliermi a tradimento con botte di commozione che mi terranno sveglio la notte. Poi, mentre sono già in corridoio, sento lei che dice al marito: Siamo stati fortunati, che bravo dottore abbiamo trovato.
A quel punto, ormai, la botta di commozione è diventato l’urto di un tir a rimorchio: ma questo è inutile che io ve lo dica.
La canzone della clip è Lay on it, cantata da Jerôme Rebotiér, tratta dalla colonna sonora del film francese “Le meilleur reste à venir” (2019).
Come si legano insieme la vicenda umana di uno degli alunni del celeberrimo programma televisivo “Amici” e la storia del degrado culturale degli ultimi decenni, lo stesso che di recente ha portato alla revisione del finale della fiaba di Biancaneve perché il bacio del Principe, essendo la ragazza priva di sensi, non sarebbe consensuale e quindi diseducativo per i più piccoli?
Intanto, pochi sanno che la versione in cui Biancaneve viene risvegliata dal Principe con il bacio rubato è una di quelle alternative. Nella prima versione dei fratelli Grimm Biancaneve si risveglia perché la bara di cristallo in cui è distesa, mentre il Principe la trasporta nel suo castello, scivola giù per una scarpata: l’urto della bara contro le asperità del terreno fa saltar fuori il pezzo di mela avvelenata dalla bocca di Biancaneve, che si risveglia (e poi, manifestando lucidamente il suo consenso, sposa il Principe).
Ma veniamo ad “Amici”, che il sabato sera rappresenta un momento di convivialità familiare difficile da ottenere in qualsiasi altro momento della settimana per le esigenze disparate dei suoi membri. Uno dei protagonisti si chiama Deddy, ha vent’anni, viene da una famiglia umile e, come si dice in gergo, si è fatto da solo. Ha cominciato a lavorare molto presto come barbiere e coi primi risparmi si è comprato una piccola tastiera: con la quale, narra la leggenda, si è impratichito grazie ai tutorial di YouTube fino a manifestare la sua vena artistica in canzoni composte da lui stesso (sulle quali non esprimo un giudizio personale perché non pertinente al tema della riflessione). Insomma, un ragazzo destinato a una vita anonima che trova la tenacia e la forza interiore necessaria a svoltare ed affermarsi, anche se (come lui stesso ha raccontato) i suoi amici lo prendevano in giro e cercavano continuamente di sminuire i suoi sforzi. Vorrei vedere la faccia dei suoi amici adesso che Daddy si sta giocando la finale di “Amici”: ma su questo torneremo più tardi.
Da circa quattro mesi un ragazzo di venticinque anni ha aperto un negozio di barbiere poco lontano da casa mia. All’epoca mi dissi: cavolo, perché non dargli una mano? In fondo un ragazzo giovane che apre un’attività, durante una pandemia mondiale, ha quantomeno del fegato. Il barbiere, lo chiamerò Luca ma non è il suo vero nome, si è dimostrato un abile professionista e ha capito al volo come domare i miei capelli che, come sa bene chi lo ha preceduto negli ultimi cinquant’anni, sono parecchio duri da tenere a bada. In più è simpatico, sagace, alla mano. E in più il suo negozio è sempre lindo e pinto, pulito a specchio. L’ultima volta, ieri, abbiamo parlato della sua storia: a diciassette anni consegnava pizze a domicilio. A diciotto ha cominciato a lavorare come garzone da un barbiere, mentre i suoi amici lo prendevano in giro e gli davano dello “sbeccato”, termine veneziano poco elegante per suggerire la presunta tendenza all’omosessualità di chi riceve il complimento. A venticinque anni Luca ha aperto la sua attività in proprio: non ha padroni, gestisce il suo negozio in autonomia e ha la lista di clienti sempre piena zeppa. Nei suoi occhi, mentre lavora, scorgo una luce che somigliava molto a quella che avevo io alla sua età: la sensazione che stai realizzando un sogno, partendo da zero, senza nessuno che ti aiuti, è inebriante. Gli ho chiesto che fine avessero fatto gli amici che gli davano dello sbeccato: un paio sono disoccupati, un altro (testuali parole) pippa l’impossibile e naviga in gran brutte acque, e in pochi hanno combinato qualcosa di buono. Sarebbe bello vedere anche la faccia degli amici di Luca, quando passano davanti al suo negozio: temo sia parente stretta di quella degli amici di Daddy quando lo vedono in televisione su “Amici”.
Il tutto, e spero che adesso finalmente capirete il pensiero contorto che mi ha spinto a scrivere queste righe, si correla parecchio da vicino al monologo di Lenny Bruce nel film sulla sua vita interpretato magistralmente, come al solito, da Dustin Hoffman. In particolare quando Lenny dice, a proposito dei luoghi comuni offensivi verso i singoli individui o le categorie: “È la repressione di una parola a darle violenza, forza e malvagità”. A un certo punto Lenny dice che se quelle parole fossero usate in continuazione, anche dal presidente Kennedy, perderebbero la loro importanza e «nessuno potrà mai fare piangere un bambino nero di sei anni perché qualcuno lo ha chiamato negro a scuola». Stabilire regole rigide per vietare l’uso di parole offensive, in qualche modo, sembra dare vigore all’offesa stessa. O non è vero?
Ma questo è un argomento difficile da trattare, e non credo che Facebook sia la piazza ideale dove confrontarsi in tempi bui nei quali l’uso dei termini adoperati nella discussione sembra preponderante rispetto al tema della discussione stessa. E certo, potremmo perderci per ore sul seguente dilemma: sono le parole con cui descriviamo la realtà a crearla o è la realtà stessa a creare le parole con cui viene descritta? Ma non è questo il punto. Io, con Lenny Bruce, credo che le parole alla fin fine siano solo parole: cioè contenitori vuoti in cui riversiamo la nostra personale idea di realtà. Possiamo essere più o meno bravi a riempire quei contenitori, ma credo che l’ingrediente fondamentale sia la materia con la quale li riempiamo, non i contenitori in sé. Ma non ho la pretesa della ragione a priori, e sono arrivato a un’età in cui non è più così necessario ottenerla a tutti i costi.
Ho scritto queste quattro righe per un altro scopo: suggerire ai Deddy e ai Luca di tutto il mondo di non dar retta alle prese in giro da parte di piccole persone spaventate, ma di perseverare sempre, con tutta l’anima, nel progetto di vita che ci si è immaginati. Potrà andar bene, se siamo abbastanza motivati e/o abbastanza fortunati, o potrà andar male: ma quantomeno, a differenza di chi getta la spugna ancor prima di partire e vorrebbe che anche gli altri facessero lo stesso, ci avremo provato con passione e determinazione. Chi si brucia non è chi fallisce, ammesso poi che abbia fallito, ma chi non ci prova nemmeno o scappa a gambe levate alla prima difficoltà.
Perché la vita funziona così: qualcuno scrive le favole e qualcun altro prova cambiarne i finali. Bisogna scegliere da che parte stare: e io, tutto sommato, il Principe di Biancaneve lo capisco.
La canzone della clip è “Giusto o sbagliato”, di Alessio Caraturo, tratto dall’album “Ciò che desidero” del 2005.
La riflessione odierna parte dalla recente pubblicazione del libro “Scacchi e management”, edito da Il Sole 24 ore. Cito dalla descrizione: “Il mondo del management pretende che gli attori siano in grado di gestire il complesso sistema azienda sia al suo interno che all’esterno in un’ottica di competitività. Diversi saranno i temi che si affronteranno dalle regole del gioco alla geopolitica, passando per self-improvement, risorse umane e trading; gli scacchi sono un comune denominatore per queste aree, che ci portano a perseguire l’obiettivo del successo”.
Tenete a mente i seguenti punti chiave del libro: 1) l’ottica di competitività; 2) il self-improvement; 3) l’obiettivo del successo. Ci torneremo a fine chiacchierata.
Dopo aver vinto il concorso da primario, anni addietro, scoprii che entro un anno dalla nomina ero tenuto a frequentare un corso di formazione manageriale orientato alla sanità. Corso obbligatorio della durata di un anno, piuttosto costoso e a totale carico dei neo-direttori: due martedì al mese una full-immersione totale di una giornata intera nel mondo del management sanitario. In quell’anno furono toccati molti punti critici: le componenti tecniche del nuovo lavoro (per esempio le basi del budget annuo), la gestione del gruppo, lo sviluppo delle motivazioni nei collaboratori, la creazione di un ambiente lavorativo in grado di perseguire il successo.
Non scendo in particolari ma sarò sincero: alla maggior parte dei partecipanti quel corso non sembrò così fondamentale. Per non sembrare irriverente, nei confronti dei docenti che si sono succeduti nel corso di quei mesi, provo a spiegarmi meglio.
Guardate questo grafico. Sulle ordinate c’è il senso del dovere, cioè la molla che spinge le persone a perseguire la qualità nel proprio lavoro o quantomeno a essere funzionali agli obiettivi del gruppo in cui lavorano. Sulle ascisse c’è la percezione dell’importanza dei cazzi propri: locuzione, espressa in un vernacolo che spero vorrete perdonarmi, che indica tutto quello che può distogliere dal senso del dovere, quindi dagli obiettivi del gruppo, e che può essere declinata in vari modi (famiglia, salute, divertimento, guadagno, equità della gestione, eccetera).
Come appare intuitivo, il senso del dovere è inversamente proporzionale alla percezione dell’importanza dei cazzi propri: se una aumenta, l’altra diminuisce. Questo rapporto di proporzionalità inversa non è costante ma varia a seconda delle persone: se il lavoratore parte da un valore di senso del dovere molto elevato, e dunque ha una percezione relativamente ridotta dell’importanza dei cazzi propri, la curva di decremento derivante dalla percezione dell’importanza dei cazzi propri è meno ripida, e viceversa: questo fa la differenza tra una collega ideale e uno stronzo, con tutte le possibili gradazioni intermedie. La posizione del singolo lavoratore in un punto qualsiasi della curva che gli compete è variabile e dipende dalla situazione ambientale: più il luogo di lavoro è conforme alle aspettative del lavoratore, più quel punto si sposta verso l’ordinata; meno è conforme, più quel punto si sposta le ascisse. In ogni caso, qualunque sia la ripidità della curva senso del dovere/cazzi propri, il punto davvero critico è dove essa impatta con la soglia sotto la quale il senso del dovere diventa così basso da generare stronzaggine (intesa come scarsa capacità di collaborazione e volontà di mettere bastoni tra le ruote al sistema) nel lavoratore, anche quello ideale. È lì che si genera un serio problema per il capo, e nessuna scuola superiore di sanità ti insegna a risolverlo.
Il compito del capo, a questo punto appare ovvio, è spostare il più possibile la curva verso destra, e tenerla lì a ogni costo. È lì che si misurano le sue autentiche qualità, pare. Ma chi è, in buona sostanza, un capo? Come possiamo definirlo con precisione?
Un tentativo, sempre al corso manageriale, fu fatto nella lezione di esordio evocando la figura mitica di Ernest Shackleton, l’esploratore che guidò la spedizione Endurance al Polo Sud. Non importa conoscere i particolari della vicenda (chi è interessato può godersi, cliccando qui, la puntata di Quark dedicata a Shackleton e alla missione dell’Endurance): il succo della questione è che l’impavido esploratore, a detta tutti coloro che ne hanno fatto il simbolo universale della leadership, riuscì a tenere unita una squadra di uomini ormai condannati alla morte peggiore che mente umana possa concepire e a condurli a una salvezza del tutto insperata, attraverso pericoli straordinari e in un territorio inospitale come potete immaginare l’Antartide nella stagione invernale, quando la temperatura può scendere, ma scendere è un termine riduttivo, fino a 70° sotto zero. Il narratore, durante la lezione, diede l’idea di un gruppo coeso fino all’inverosimile in cui nessuno ebbe mai un cenno di dissenso, una nota di sfiducia nelle virtù del capo. Di una squadra così fedele al suo capitano da non mettere mai in discussione, appunto, la sua leggendaria capacità di leadership. Ma la storia racconta una versione differente: i suoi uomini avevano mostrato eccome, segni di malcontento e sfiducia nel loro leader. Quando Shackleton diede l’ordine di uccidere i 70 cani da slitta, gesto doloroso ma compassionevole perché in alternativa le povere bestie sarebbero andate incontro a una morte molto più terribile, gli diedero alle spalle dello stronzo privo di pietà. Quando chiese al fotografo di scegliere solo un centinaio di lastre fotografiche, e di sacrificare le altre perché non avrebbero potuto trasportarle sul pack, l’altro rispose sprezzante che in buona sostanza si erano persi chissà dove e senza nemmeno sapere in che modo: altro che riconoscimento della leadership, quello era incazzato nero e aveva la fiducia nel suo capo spedizione letteralmente sotto i piedi.
E allora qual era il segreto di Shackleton, ciò che lo ha reso un’icona moderna della leadership? Bella domanda. Il vero punto chiave dell’intera vicenda, secondo me, stava nel testo dell’inserzione di giornale con la quale Shackleton aveva reclutato i 28 uomini della spedizione. L’inserzione così recitava: “Cercasi uomini per spedizione rischiosa. Paga bassa, freddo estremo, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ritorno. Onori e riconoscimenti in caso di successo”. Eccolo il vero segreto del successo impossibile di Shackleton, altro che chiacchiere: i suoi erano uomini senza paura, e così motivati da avere il coraggio di rispondere a un’inserzione di quel genere. Perché nella vita reale è quello l’elemento chiave: il coraggio, che a sua volta determina la capacità di abnegazione e di sacrificio, che a loro volta determinano l’endurance, cioè la perseveranza e la resistenza. Cioè la possibilità di tornare a casa vivi.
Le fortune di un leader, non c’è niente da fare, sono legate indissolubilmente alla pasta di cui sono fatti i suoi uomini. Ma non basta, sarebbe troppo semplicistico: bisogna fare i conti anche con l’ambiente in cui si sviluppa l’attività di questi uomini. Perché esistono solo due valori (o disvalori) intorno ai quali è possibile aggregare un gruppo di uomini: la motivazione e i risultati. Un fulgido esempio di motivazione è la missione Endurance di Ernest Shackleton. Un altro esempio, meno estremo e a noi più prossimo, è l’ambito universitario. Per soddisfare l’ambizione della carriera universitaria, lo sanno tutti quelli che ci hanno provato, bisogna sottostare alle regole imposte dal professore ordinario: quelle regole non sempre sono logiche e spesso contengono elementi di puro sadismo (avete visto il film “Il diavolo veste Prada”? Appunto). Ciò che in una situazione normale ci manderebbe alla deriva, esasperati, e quindi alla ricerca di un nuovo posto di lavoro, se invece si è abbastanza motivati diventa sopportabile. Come direbbe anche oggi Protagora di Abdera, se fosse vivo e di mestiere facesse il motivatore (il che non ci sorprenderebbe perché i retori, come buona parte dei motivatori odierni, erano dei gran paraculi), l’uomo è misura di tutte le cose.
Un esempio di risultato è invece il seguente: poter distribuire ai propri collaboratori cospicui premi legati al suo raggiungimento. Ti faccio lavorare come una bestia ma a fine mese o a fine anno la tua busta paga giustificherà la fatica e il tempo regalati al lavoro. Il vero problema, questo dopo oltre vent’anni di lavoro l’ho capito bene, non è mai quanto lavori ma quanto vieni pagato: incidentalmente, si fa per dire, questo è proprio il nodo alla base della crisi di reclutamento dei medici nelle strutture pubbliche.
Ma c’è un particolare che spesso viene trascurato: l’aggregazione dei gruppi di lavoro ha molto a che fare con le leggi della domanda e dell’offerta. Quanti di voi hanno abbandonato un lavoro, un gruppo affiatato, un capo illuminato, solo perché da qualche altra parte vi avevano offerto più soldi? E quante volte siete stati voi a rilanciare con il vostro capo, a fargli intuire che la concorrenza vi aveva offerto un aumento cospicuo? Finché il mercato del lavoro lo ha permesso, almeno nel privato, questa era la norma. Arrivavi in un posto di lavoro, ti facevi benvolere, svolgevi diligentemente il tuo compito e poi rilanciavi. I capi facevano due conti: se valevi la pena ti concedevano l’aumento di stipendio o lo scatto di carriera; in caso contrario saluti e grazie, quella è la porta. Ma la premessa è che tu avessi davvero pronto il piano di riserva, cioè che da qualche altra parte ci fosse un capo disposto a concederti quanto richiesto. In un certo senso, era necessario che a) tu valessi davvero quello che millantavi di valere e b) che il mercato avesse bisogno delle tue competenze e fosse in grado di assorbirti alle tue condizioni.
Tornando a bomba: chi è allora il Capo? Che declini l’organizzazione lavorativa in modo verticale (io comando, voi ubbidite) o in modo orizzontale (io sono uno di voi, coinvolgo, coordino e non ordino), il Capo è quella persona che in qualche modo deve tenere i colleghi sopra la soglia della stronzaggine. Su questo aspetto c’è gente che ha costruito una fortuna: prendete Daniel Goleman, per esempio, e tutti i suoi trattati sull’intelligenza emotiva e la gestione emotiva della leadership. Ma i trattati sulla leadership, ahimè, non tengono conto della situazione ambientale. Nel privato, diciamocelo pure, o in certi ambienti selezionati del pubblico impiego dove la motivazione è intrinsecamente forte per l’ambizione dei singoli (l’università, dicevamo, ma anche per certe posizioni dirigenziali molto vicine al potere centrale), un Capo ha le palle dei collaboratori in mano. Lavori male? Non sei allineato? Ti faccio fuori. Lavori bene, sei affidabile e fedele? Ti farò guadagnare l’ira di Dio o farò di te un uomo potente, ma sappi che non avrai più una vita privata e la tua anima sarà di mia esclusiva proprietà. Certo, esiste la possibilità non remota che in un ambiente del genere, fortemente orientato alla competitività (vedi il punto 1 da cui siamo partiti), un collaboratore particolarmente dotato riesca a farti le scarpe: la filmografia americana è piena di esempi del genere. Diciamo che si tratta di rischio d’impresa.
Ma noi lavoriamo nel pubblico, a livelli medio-bassi, dove la motivazione è poca perché si guadagna una cifra non commisurata agli anni di studio, all’impegno e alle responsabilità. Venendo meno il punto 1, cioè l’ottica della competitività (perché una filosofia sballata di risparmio delle risorse ha di fatto ridotto all’osso gli obiettivi per i quali competere), e il punto 3, cioè l’obiettivo del successo (perché non esiste più un obiettivo per il quale sia conveniente competere, né economico né professionale), un Capo dovrebbe almeno poter lavorare sul punto 2, il self-improvement. In italiano, che suona meglio, si parla automiglioramento, cioè come far emergere la versione lavorativa migliore di se stessi: in buona sostanza, come imparare a risiedere stabilmente sopra la soglia della stronzaggine. Però, lo capite bene anche da soli, un Capo che abbia a disposizione solo l’arma del self-improvement parte svantaggiato: ti può capitare il collaboratore illuminato che le motivazioni le ha già dentro di sé, a prescindere, ma ti può capitare anche quello per cui l’importanza dei cazzi propri è preponderante; tanto più che il posto pubblico non lo può toccare nessuno e l’offerta è talmente ampia, al momento, che uno può decidere sui due piedi di andarsene a lavorare in altre strutture, pubbliche o private che siano. E capite bene anche che la figura del Capo, il quale per definizione è “la persona al vertice di un’organizzazione o di una gerarchia” (Dizionario Google), e quindi dovrebbe poter maneggiare agilmente gli strumenti del potere, nella sanità pubblica al momento vive una crisi strutturale. Non può premiare economicamente chi si distingue. Non può nemmeno più mandare ai congressi i più meritevoli, perché da oltre un anno i congressi in presenza sono stati aboliti per l’emergenza sanitaria ancora in atto. Non può punire in alcun modo chi gli rema contro, causando danni incalcolabili all’intero sistema, perché rischia la rivolta armata dei sindacati (i quali, al solito, difendono il lavoratore e non il Lavoro, con nocumento di tutte le parti in causa) o l’inoltro di certificati di malattia dalla durata epocale. Non può imporre un percorso di auto-miglioramento a chi non abbia voglia di intraprenderlo, e stiamo parlando della maggioranza.
Morale: mi fa ridere assai il paragone tra il gioco degli Scacchi, che è uno sport nobilissimo e complesso assai, in cui la matematica e l’estro fanno la differenza, e le teorie del management, che invece si fondano su una montagna di assunti non dimostrabili né quasi mai applicabili nella vita reale, specialmente quando si lavori nel pubblico. E mi fa ridere ancora di più, con il senno del poi, il progetto di aziendalizzazione della sanità pubblica: se vuoi trasformare la sanità pubblica in un soggetto vincolato alle regole e agli obiettivi delle aziende private, mi dispiace, ma devi dare in mano a chi gestisce l’azienda, a tutti i livelli, un potere effettivo e non fittizio. Invece è stato più comodo accentrare tutto il potere nelle mani di pochi, così da renderlo in apparenza di più facile gestione e soprattutto controllo. E senza accorgersi che nessuno può gestire tutto quel potere senza che gli dia alla testa, o che si commettano errori anche grossolani, o che si perdano di vista gli interessi di chi si avvale dei servizi stessi. Lasciando monche le figure intermedie, che si arrabattano come possono perché in genere il loro senso del dovere è molto spiccato, e sono destinate in ogni caso al fallimento: sia con la gestione autocratica che con quella demo/meritocratica.
Ma il bello della vita è che va a cicli. Un giorno più o meno lontano ci sarà di nuovo esubero di personale medico e gli equilibri cambieranno di nuovo. Quel giorno getteremo nella spazzatura il libro “Scacchi e management” e ritorneremo a vivere, felici. Nel mentre, ognuno trovi la sua collocazione naturale nel diagramma successivo,, che è complementare al primo. E se ci riesce, anche se è difficile, provi a trarre le sue conclusioni.
PS Grazie a Ottavio Davini, che mi ha segnalato la proprietà intellettuale del secondo diagramma, quello non mio (Carlo Cipolla, tratto da “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, in “Allegro ma non troppo”).
In quel titolo tratto dal sito news di Mediaset, “Tesla senza conducente, due morti a Houston”, è insita una fallacia logica che, se mi seguite da almeno un anno, avete già intuito. Si chiama “petitio principii“ ed equivale al cosiddetto “giro vizioso”: quando cioè si inserisce la conclusione nella premessa in modo da poterla dimostrare con maggiore facilità.
In questo caso la tesi, abilmente mascherata dal titolone, è che la Tesla di Houston abbia avuto quell’incidente proprio perché alla sua guida (automatica) non c’era nessuno dei due cadaveri estratti dall’abitacolo. Non abbiate dubbi sulla fallacia perché nell’articolo, più avanti, si sottolinea che la stessa casa costruttrice sconsiglia la guida totalmente automatica del veicolo (immagino proprio allo scopo di non dover sottostare a risarcimenti miliardari in casi come questo).
La fallacia logica nasce da quanto segue: non esiste prova certa che i due passeggeri stessero dormendo, amoreggiando o giocando a scopone scientifico quando la Tesla ha fatto amicizia con il platano. Dunque non si tratta di una notizia ma di un manifesto programmatico. Oppure, nella migliore delle ipotesi, di uno specchietto per le allodole che ha il solo scopo di attrarre lettori: l’intelligenza articolare spaventa a morte i radiologi, figuriamoci l’uomo della strada.
Ed è giornalismo superficiale perché si limita al titolo a effetto e non approfondisce i temi critici: quanti incidenti in più o in meno avremmo se tutte le auto, magari messe in rete tra loro, fossero dotate di guida automatica? Non è forse maggiore, e di tanto, il numero di incidenti legati all’incuria del pilota umano? Non dovremmo sviluppare l’AI proprio allo scopo di ridurre gli incidenti, e quindi non soffermarci sul singolo evento avverso, anche qualora fosse circostanziato con certezza?
Mi ostino su questo esempio di giornalismo deteriore perché è lo stesso che ha avvelenato la campagna vaccinale e continua a farlo, con danni alla comunità che al momento non siamo in grado di quantificare con certezza: la notizia costruita per aumentare le vendite e le visualizzazioni, e non per informare o approfondire. Che pesca nel torbido approfittando delle paure ancestrali dell’uomo e dello squilibrio emotivo e psichico indotto da oltre un anno di carcerazione preventiva.
Ricordatevelo, quando tutto sarà finito: le fallacie logiche sono sempre le stesse. Imparare a riconoscerle è il primo passo per non farsi fregare.
La canzone della clip è “Rock’n roll robot”, di Alberto Camerini, tratto dall’album “Rudi e Rita” del 1981. Un bagno negli anni ’80 che ha il solo scopo, esemplificativo, di mostrarvi come tutto fosse chiaro già all’epoca.
Gli All Blacks sono i giocatori della squadra di rugby a 15 della Nuova Zelanda. Li conoscerete sicuramente per la casacca nera e per la Haka, la danza māori che eseguono prima di ogni gara: una sfida rituale, al suono del ngunguru, il terremoto, che i giocatori lanciano agli avversari. Con la Haka i rugbisti neozelandesi sono certi di evocare i tīpuna, gli antenati, e condurli con loro nel campo di gioco. Ma al tempo stesso, ne siamo tutti sicuri, è un modo per intimidire gli avversari, per dare l’idea che sul campo di battaglia lotteranno come leoni, uniti come un sol uomo, all’ultimo sangue. L’Haka, più di ogni altra cosa, fa degli All Blacks un gruppo dotato di un’identità culturale che trascende il gioco stesso del rugby. Gli avversari reagiscono alla danza rituale in modi diversi (ignorando gli All Blacks, sfidandoli, deridendoli), ma il dato di fatto è che ne subiscono per intero il timore reverenziale. E spesso, a vedere le loro facce, la partita l’hanno già persa quando la Haka raggiunge il suo climax. Ma c’è una cosa che non sapete, degli All Blacks.
A fine partita, che la squadra abbia vinto o perso, c’è la Whare: un altro rito maori durante il quale tutti hanno l’occasione di parlare relativamente alla partita appena finita, raccontare la propria versione dei fatti e cosa essa abbia che fare con la storia personale. A fine della Whare accade, sempre, una cosa incredibile: due giocatori, non importa se anziani o meno, se di caratura internazionale o gli ultimi arrivati in squadra, prendono straccio e scopa e ripuliscono lo spogliatoio. Lo fanno loro perché nessuno deve prendersi cura degli All Blacks se non gli All Blacks stessi. Diceva di questo rituale Andrew Mehrtens, mediano di apertura, secondo miglior realizzatore di sempre nella storia degli All Blacks: “Ti insegna a non aspettarti le cose pronte. Non è previsto che qualcun altro faccia il lavoro al posto tuo. Se nella vita segui una disciplina personale, sarai più disciplinato in campo. Nessuno desidera un gruppo di singole individualità. Magari non ti farà vincere tutte le volte, ma nel lungo periodo avrai sicuramente una squadra migliore”.
Insomma, la questione è duplice e si allaccia strettamente, e non intuitivamente, al Grande Perché di Buckminster Fuller, il noto architetto e intellettuale statunitense del secolo scorso. Il quale, in un momento di profonda depressione personale, si pose la domanda fondamentale: “Qual è il mio compito su questo pianeta? Cosa deve essere fatto, di cui io devo sapere qualcosa, che probabilmente non accadrà a meno che io non me ne assuma la responsabilità?”
Porsi questa domanda vuol dire aspirare al māna: termine maori che indica prestigio personale, il riconoscimento pubblico del proprio carisma. Gli All Blacks traducono questa domanda enorme in una affermazione molto semplice, che trasuda l’umiltà necessaria ad affrontare sfide grandiose: “Pulisci gli spogliatoi. Non sentirti mai troppo grande per fare cose piccole”. Perché pulire gli spogliatoi, appunto, è una cosa che deve essere fatta; e, al pari delle attività più prestigiose, nel modo migliore. A partire da questa disponibilità a occuparsi anche delle attività più umili, ogni singolo giocatore è invitato a contribuire alla risoluzione dei problemi con le proprie soluzioni. Risolvere i problemi insieme alla propria squadra, secondo la filosofia degli All Blacks, conduce a un vantaggio strategico sostanziale: la coesione culturale. I giocatori della nazionale di rugby non vengono scelti sulla base delle sole capacità, il che è incredibile in un mondo ipercompetitivo come il nostro, ma sulla base del carattere. Solo in questo modo sarà possibile che tutti giochino a favore di una causa più grande: che nel loro caso è, letteralmente, lasciare la maglia in un posto migliore da dove ogni giocatore l’ha raccolta. Gli avversari degli All Blacks, in definitiva, probabilmente non temono la Haka in sé ma la coesione culturale che si cela dietro il rituale della danza.
Noialtri invece, poveri allenatori di squadre di provincia del campionato italiano della sanità pubblica, non possiamo scegliere i nostri collaboratori: ti càpitano e basta, se pure prima o poi ne arriva qualcuno. Quando, in un passato ormai non più recentissimo, mi sentivo dire che dovevo coccolarli affinché non andassero via, mi veniva sempre in mentre l’altro mantra, molto prosaico, degli All Blacks: “Niente teste di cazzo”. Nella squadra, intendono loro.
Allora forse ai neospecialisti dovremmo far pulire i gabinetti dei reparti, prima di assumerli, e vedere come se la cavano. Oppure, più seriamente, rivedere in modo sostanziale il ruolo del Direttore: perché se a un collaboratore non puoi offrire soldi e possibilità di carriera, l’unica è sperare che quando le vostre strade si incrociano lui o lei si siano già fatti la famosa Domanda di Buckminster Fuller. E che abbia risposto allo stesso modo in cui hai risposto tu, tanti anni prima, quando è stato il tuo momento:Intanto adesso pulisco gli spogliatoi, poi vediamo.
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