Parole che non esistono

di | 12 Aprile 2013

Ci sono concetti che, in certe lingue, non sono traducibili in vocaboli di uso comune.

Per esempio: lo sapevate che la parola neve, nella lingua dei nativi groenlandesi, presenta almeno una ventina di sinonimi? Sarebbe a dire che mentre un indigeno della Groenlandia si reca da un igloo all’altro, con la slitta in una mano e la sua brava lattina di olio per motore nell’altra, con i suoi occhi distingue almeno venti tipi di neve differente. Mentre invece, per questioni facilmente intubili, non esiste la parola neve in molti dialetti del centro Africa.

Le parole che usiamo discendono in via diretta dal nostro vissuto, sono una specie di manifestazione sonora delle esperienze di un intero popolo che molto svela delle sue caratterstiche culturali. Insomma, ci sarebbe agio di allargare il discorso ai vizi e virtù degli italici, che invece possiedono una pletora di sinonimi per le regioni anatomiche sessuali che non ha eguali nel modo e che la dice lunga su quali siano le nostre fissazioni principali, ma oggi devo parlare di altro.

Perché, dovete sapere, qualche giorno fa è mancato un mio caro amico. E’ mancato all’improvviso, come capita a chi ci lascia le penne alla mia età. E’ mancato senza il tempo di raccontarci le ultime boiate, scolare insieme qualche boccale di birra e salutarci con pacche molto virili sulle spalle: perchè vabbè che ci vogliamo bene, ma che cavolo, siamo pur sempre maschietti e come tali bisogna comportarci. Perbacco.

Al funerale c’era la madre, devastata dal dolore: uno spettacolo contro natura, diciamocela tutta, perché nessun genitore dovrebbe mai sopravvivere ai suoi figli. Insomma, con la madre si è parlato di lui, del nostro amico, delle avventure rocambolesche degli anni universitari, di donne e di vino e di pazzeschi capodanni al lago. Si è parlato di come tutti noi amici gli volessimo un gran bene, di quanto fosse assolutamente, straordinariamente, magnificamente generoso in ogni suo gesto; anche il più piccolo e apparentemente insignificante. Ci ha raccontato del suo lavoro di avvocato, delle soddisfazioni di madre nel vedere il figlio realizzato dopo i giusti e sacrosanti sacrifici.

E poi ha detto un’altra cosa. Nella nostra lingua esiste una parola per definire chi perde un genitore: orfano. E poi esiste una parola per definire chi perde un coniuge: vedovo. Ma non esiste nessuna parola in grado di definire chi perde un figlio: perché, appunto, è un’eventualità contro natura, perversa, così perversa che nemmeno il nostro vocabolario la contempla.

E invece succede. C’è del marcio in Danimarca.

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