Peccati capitali

di | 16 Settembre 2015

Forse lo sapete, io ora sono a Parma per il congresso nazionale della Sezione di Radiologia Toracica. Sveglio da parecchie ore perché partito appena dopo lo smonto notte, con in corpo molti caffè ma niente ore di sonno; e adesso sono stravaccato sul letto della stanza d’albergo a rilassare le gambe e chiosare la mia giornata.

Perché, vedete, oggi ho imparato una cosa nuova sul mio conto. Ero seduto nella fila dei relatori accanto a uno dei colleghi di cui ho maggior stima professionale e umana: abbiamo commentato le relazioni, parlato della mia e fatto un po’ di quello che in dialetto veneto si chiama, affettuosamente, comaró (immaginate da soli il significato, non è difficile). A un certo punto lui mi ha guardato e ha detto: Sai cosa mi piace di te? Che secondo me tu non sei un invidioso.

Beh, ci ho pensato su qualche secondo. Se prendiamo come parametro i sette peccati capitali, diciamo che gli altri, fatta forse parziale eccezione per la gola e l’accidia, me li lavoro tutti, quotidianamente, con alterne percentuali. Ma l’invidia, ecco, quello è un sentimento che non conosco. Se uno è bravo gli va detto, punto. Puoi ammirarlo, stimarlo, prenderlo come esempio. Oppure può anche starti antipatico; ma volergli male, beh, quello no, proprio non ci riesco.

E così mi sono ricordato di una delle ultime confessioni da un prete: stiamo parlando di una venticinquina di anni fa, quando ero giovane e ancora coltivavo la pia illusione di un Padreterno benigno e votato al progetto grandioso, alla comprensione e al perdono, invece che alla mera contemplazione del rimescolamento degli umori umani. Il prete, stanco e curvo dietro la grata di metallo (all’epoca ancora si usava così), mi fece la domanda d’obbligo: Che peccati hai commesso?

Io risposi: Possiamo prendere per buoni i dieci comandamenti? Buoni nel senso di esaustivi dei peccati umani possibili?

Certo, disse lui.

Bene, conclusi. Allora le faccio perdere poco tempo: se togliamo uccidere e rubare gli altri li ho commessi tutti.

Ridemmo, tutti e due, di gusto; e ancora adesso ogni tanto, se ci ripenso, sento l’eco lontana di quelle risate. E ricordo anche le parole che mi disse dopo, quando tornammo seri. Si era accesa una luce nel suo sguardo quando disse, questa volta senza ridere: Ricorda che nella vita non sono tanto importanti i peccati, quanto quello che impari dopo averli commessi.

Che poi, insomma, io devo avere proprio imparato tanto dalla vita. Tanto davvero, salvo forse che a coltivare invidie: anche perché, giuro, a guardarsi in giro non c’è veramente molto nelle vite altrui, come nelle nostre, di che essere invidiosi.

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