Perché Facebook no ma Twitter si

di | 27 Luglio 2013

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Ho sempre avuto i miei problemi, con Facebook.

La prima volta mi sono iscritto con il mio vero nome, ho atteso qualche giorno e poi ho fatto amicizia con gli amici che già frequentavano l’ambiente da qualche tempo. E lì sono cominciati i problemi: quando nel gruppo nasceva una discussione, con modalità analoghe alle situazioni live, si finiva per litigare perché uno diceva una cosa e gli altri capivano tutt’altro, e si scatenavano polemiche omeriche con scariche radenti di vaffanculo. Quando sei di fronte a una frase scritta al computer, che si tratti di FB o anche di una più semplice email, può essere difficile capire se chi l’ha scritta al momento era serio o faceto: bisognerebbe essere dieci volte più accorti, ma voi capite bene che uno su un social network ci si reca per rilassarsi, certamente non per farsi le paranoie su cosa capiranno gli altri di ciò che ha scritto. FB, insomma, è una strada senza uscita.

A un certo punto su FB hanno cominciato a chiedermi l’amicizia persone che, semplicemente, non ricordavo più chi fossero. Al punto che, per uscire dall’imbarazzo, ero costretto a scrivere o telefonare ai miei amici.

Io: Scusa, ma secondo te chi cazz’è questa Monica che mi ha chiesto l’amicizia in nome delle serate passate insieme a Ferrara?

Amico: Come chi è? Era la morosa di Cristiano.

Io: Chi, quel testa di minchia con cui abbiamo litigato tutti per colpa della morosa?

Amico: Esatto. Monica era la morosa del testa di minchia.

Io: Madó. Ma non le stavo sulle palle, io a lei?

Eppure fino a quel punto ce l’avrei potuta ancora fare: se non fosse stato per le richieste di amicizia di persone di cui invece mi ricordavo perfettamente, ma dalle quali mai e poi mai, nella vita, avrei voluto essere ritrovato. Mi dispiace, dissi a quel punto, ma questo è davvero troppo. Non ho percorso quasi 700 chilometri per essere ritrovato da quel pirla che da ragazzino si divertiva un mondo a spiaccicare lo slaim contro il soffitto della cucina. Arrivederci da un’altra parte e grazie.

Poi sono rientrato su Facebook ma dalla porta di servizio, con il mio nome da blogger e l’account gestito dal mio webmaster. Il quale mi cazzia a ripetizione da anni, sostenendo che per aumentare il numero dei naviganti sul blog dovrei essere più interattivo rispetto alla nuda e cruda comunicazione periodica che ho prodotto un post nuovo. Ma tutto sommato a me va bene così, anche se spesso e volentieri mi dimentico anche di quello e poi magari inserisco una dozzina di post tutti insieme: tipo che mi chi segue si fa l’idea che il buon radiologo.net sia un grafomane compulsivo con lunghi intervalli di serio ripensamento sul reale valore delle cose che scrive (il che peraltro non è molto lontano dalla realtà, in modo insidiosamente freudiano).

Poi però ho scoperto Twitter. Dal quale mi ero sempre tenuto lontano per motivi analoghi a quelli per i quali mi ero tenuto lontano da FB: i social network tendenzialmente mi alienano, se posso cerco di parlare con le persone guardandole nelle palle degli occhi e mi rifiuto di condividere le mie cose private con chiunque e a prescindere.

Ma invece Twitter è stata una sorpresa strepitosa. Intanto perché basta diventare following di qualche testata giornalistica delle meno infami in circolazione ed essere informato in tempo reale di ciò che accade nel mondo; poi per la caratteristica sostanziale di Twitter, ossia il dover concentrare tutto ciò che hai da dire nei 140 caratteri base di un vecchio sms. Se esistesse una religione della sintesi, Twitter ne sarebbe la cattedrale: ti ci obbliga anche se non vuoi e già questo è un deterrente, un filtro per i monomaniaci che non comunicano con il prossimo per confrontare i propri punti di vista ma per il solo gusto di dare aria ai denti (o di battere le punte delle dita, traslando il tutto). Insomma, su Twitter trovi solo chi riesce a essere sintetico, il che già è un vantaggio quando non hai tanto tempo da dedicare a qualcosa che non sia lavoro e famiglia, e dunque si lavora su quella parte di popolazione della gaussiana che invece della curva in salita staziona abitualmente su quella in discesa.

Tra questi ci sono, nascosti come ovunque, i geni. Geni autentici, artisti del gioco di parole, facitori di aforismi da fare invidia persino a Oscar Wilde, virtuosi della freddura che mi fanno sganasciare dal ridere anche se sono alle macchinette del caffè, in ospedale, e i pazienti mi guardano con due occhi così dalla meraviglia. Qualcuno si inventa un hastag cazzaro e tutti a fare i cazzari, come se si fosse ancora al bar universitario, ubriachi spolpi, a far la gara a chi la spara più grossa. Inutile dire che negli hastag cazzari mi ci butto a pesce anche io, ogni volta che posso: i giochi di parole sono sempre stati uno dei miei divertimenti, figuriamoci se posso farmi scappare l’occasione.

Insomma, questo è quanto. Twitter mi sembra molto più snello di FB, meno compromettente e impegnativo, e la compagnia sembra molto migliore. Potrei sbagliarmi, intendiamoci, e poi non tutti abbiamo esigenze uguali: però magari provateci, che non si sa mai.

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