Perché non siete così gentili anche voi?

di | 15 Luglio 2014

Qualcuno di voi lo sa: sebbene ridotta al minimo sindacale per questioni ideologiche e di tempo libero a disposizione, anche io produco una quota di attività libero-professionale. Non sono grandi numeri: diciamo che una o due volte al mese mi faccio una mattina di ecografie in un ospedale a gestione mista collegato alla mia azienda. Sono sessioni lavorative in genere molto tranquille: si lavora in modo abbastanza serrato ma nel silenzio più assoluto, senza telefoni che squillano in continuazione, colleghi che interrompono in continuazione. La sensazione, a fine mattina, dopo 24 e rotte ecografie, è quasi quella di essersi riposati.

Ieri mattina una signora, a fine esame, mi dice: Ma come mai qui siete tutti così gentili, disponibili e competenti? Perché non vi trasferite tutti a Treviso?
Io: Signora, noi veniamo quasi tutti da Treviso in consulenza.
Lei: E allora perché qui siete riusciti a creare un sistema accogliente e lì no?
Io: In che senso, dice?
Lei: Qui sono tutti educati, medici, infermieri e segretarie. Di là le assicuro che non è così.

Beh, io conosco bene le mie segretarie e i miei infermieri, e posso giurare sulla testa dei miei figli che non esistono persone più pazienti e gentili di loro. Conosco i miei colleghi e giuro con altrettanta solennità che, se mai dovessi aver bisogno di un radiologo, vorrei essere affidato alle mani di uno di loro. E allora da cosa nasce questa discrepanza, nemmeno tanto sottile, nella percezione della qualità da parte di un paziente normale, di cultura medio-alta, non prevenuto verso una struttura (il mio ospedale) della quale comunque riconosce meriti e competenze specifiche?

Ho provato a spiegare alla signora: Vede, qui il personale medico e paramedico è ridotto rispetto all’ospedale centrale. È più facile organizzare il lavoro, la pressione che sostiene ogni singolo operatore è molto minore. La signora, tuttavia, non mi è parsa convinta.

Allora ho provato a rifletterci su, e forse ho intuito la natura del problema. Che nacque quando furono istituite le cosiddette Aziende sanitarie (1992): prima in sanità ci si preoccupava solo ed esclusivamente dell’erogazione di prestazioni, dopo siamo stati costretti a confrontarci con la sostenibilità economica del sistema. In due parole, le USL sono diventate aziende con un occhio di riguardo al bilancio di fine anno. Quello che però in molti non hanno capito, o voluto capire, è che il concetto di azienda in sanità è direttamente collegato al raggiungimento del fine per cui l’azienda stessa è stata creata: il miglioramento dello stato di salute dei cittadini. Un bilancio economico in positivo, senza ricadute sul fine ultimo dell’azienda sanitaria (la cura delle persone), non serve a nulla se non alla gloria fugace ed effimera del dirigente di turno o del politico regionale che può cavalcarla a fini elettorali.

Le aziende sanitarie, come diceva Plsek nel 2001, sono sistemi adattativi complessi costituiti da settori interdipendenti e non a compartimenti stagni, come qualcuno pure ancora vorrebbe. Come tutti i sistemi complessi, all’interno ci lavorano persone e non automi: e le dinamiche di interazione tra persone che lavorano sono state studiate a lungo. Per esempio, è noto come un sistema sia influenzato fortemente dai comportamenti individuali in cui le scelte vengono sempre prese in condizioni di incertezza. Ė quello che accade quando diamo la terapia a un paziente, o quando l’amministrazione sceglie un primario nuovo: la riproducibilità delle scelte, anche in ambiti così diversi, non è affatto garantita. Ma esiste anche un capitolo che riguarda i comportamenti collettivi, perché salvo rare eccezioni in ambito sanitario le persone sono costrette a lavorare in gruppo e non possono permettersi il distacco dalle cose del mondo di un nerd che gestisce il proprio negozio di informatica. È lì che il sistema, secondo me, perde colpi: la gestione del potere è rimasta rigidamente piramidale e legata all’approccio verticale, dall’alto in basso, a colpi di controlli di gestione e di ordini di servizio. Invece i lavoratori dovrebbero, posti i paletti degli obiettivi fondamentali da perseguire, potersi organizzarsi in modo più autonomo, godere del privilegio di delega delle responsabilità, essere gratificati in più modi, non escluso quello economico, dal buon lavoro svolto. Se voi associate questa gestione vecchia delle cose alla pressione cui sono sottoposti oggi gli operatori sanitari in sistemi molto complessi come un grosso ospedale, capirete bene perché a volte l’impiegato di sportello è scortese, l’infermiere sbotta e il medico non è disponibile come nell’ospedale periferico dove ha molto più tempo a disposizione.

È questione di modelli di riferimento. O forse no, è solo questione del coraggio per applicare modelli organizzativi già noti da anni, e fare scelte che apparentemente sono controcorrente ma in realtà seguono un flusso logico e funzionale che non può più essere eluso. L’alternativa è la signora scontenta, il medico che mastica amaro e il sistema intero che prima o poi va in default.

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