Pioggia e sole abbaiano e mordono ma lasciano, lasciano il tempo che trovano

di | 4 Giugno 2017

Il mio mestiere, come tutti d’altronde, si fonda sul rispetto di gerarchie. Che non sono gerarchie di censo o di benessere economico, ma gerarchie di responsabilità. Ognuno nel proprio ambito, ognuno forte degli studi e dell’esperienza lavorativa che ha fatto.

Una delle cose buone che ho imparato, negli ultimi vent’anni, è che si può essere fieramente avversi ma leali anche quando lo scontro si fa violento. Perché, in teoria, a monte dello scontro c’è una struttura, un sistema, un gruppo di persone da difendere: tutti più importanti del singolo scontro, e pertanto delle motivazioni che lo sottendono. Eppure, oddio, non è sempre così: il mio passato è pieno zeppo di individui che il sistema lo hanno scarnificato, pur di perseguire i propri scopi; ma ogni tanto qualcosa di buono succede, e la vita concede qualche sorpresa.

Il mio primario numero uno, quello di quando ho cominciato a lavorare, un giorno mi disse chiaramente che preferiva non ci dessimo del tu. Non era per sottolineare le differenti gerarchie e neanche per una questione di sfiducia o disistima: semplicemente, l’esperienza gli aveva insegnato che nei momenti di difficoltà un capo deve poter esercitare l’autorità che gli compete, e che la  troppa familiarità con i propri collaboratori può rendere ostico questo esercizio. All’epoca non me ne feci un problema, e francamente continuai a non farmeli per i dieci anni successivi, quando  continuai a sentirlo spesso e a volergli bene come a un padre putativo: alla base di comprensione e accettazione ci deve essere il rispetto. In quel  caso c’era, e c’è ancora: la differenza non poteva stare, e infatti non stava, nel darsi del tu o del lei.

In queste faccende si può peccare per eccesso e per difetto. Se pecchi in eccesso nel novanta per cento sei un pallone gonfiato: ne conosco tanti, e tanti hanno anche raggiunto il vertice della piramide, in un modo o nell’altro. Erano odiati dai colleghi di reparto e degli altri reparti, dagli infermieri e dagli ausiliari: e saranno odiati ugualmente anche come primari (in genere alle cene gli si ride dietro, ma è meglio che loro non lo sappiano: potrebbero somatizzare). Se invece pecchi per difetto il rischio è più infido, rischi di essere uno sprovveduto e allora aveva ragione il mio vecchio primario a darmi del lei, pur volendomi bene e avendo stima per me. Perché il giorno in cui io mi fossi macchiato di una qualche colpa non sarebbe stato l’uomo a cazziarmi, ma il capo: e sarebbe stato giusto così. L’uomo mi sarebbe rimasto comunque affezionato, e tanti anni dopo mi avrebbe invitato spesso a pranzo per vedere i bambini; ma il capo no, il capo forse mi avrebbe lodato in pubblico, ma sicuramente mi avrebbe cazziato in privato. Come in realtà accadde.

E’ vero che nel mio mestiere dividi momenti di grande tensione e responsabilità. E’ vero che si passa molto, a volte troppo tempo insieme: ma alla fine dei conti è un mestiere come un altro; e una cosa è il lavoro, altro i rapporti tra chi lavora insieme. E allora ci vuole troppa intelligenza da una parte e troppa comprensione dall’altra: talora mancano sia l’una sia l’altra e allora mi pento di aver peccato, di non aver dato ascolto al mio vecchio primario, e persino dell’istinto che ho di mettere sempre le persone davanti al proprio ruolo. Uno può essere davanti al proprio ruolo a casa propria: al lavoro è sempre dietro, e dietro deve restare.


Scrissi questo post nel 2009, non ricordo in che circostanza. Poi il blog ebbe un crac irreversibile, come qualcuno forse rammenta, molti post andarono persi e io non ebbi mai voglia di reinserirli tutti. L’ho ritrovato per caso stamattina, otto anni dopo averlo scritto, in un angolo di un vecchio hard disk esterno. Ho pensato che gli anni passano, gli scenari si modificano ma alcune riflessioni non perdono il loro valore, sempre ammesso che lo abbiano mai avuto.
La canzone della clip è “Sempre e per sempre”, di Francesco De Gregori, tratta dall’album “Amore nel pomeriggio” (2001).

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