Sto per dire qualcosa di politicamente scorretto. Ma forse, alla fine del post, capirete quello che voglio dire.
Stamattina mi chiama una pediatra; avrebbe bisogno di una tac per un bambino di un anno e mezzo con un tumore al cervello. In fase terminale, dice. Io le do’ la precedenza assoluta. Ci mancherebbe altro.
Il bimbo arriva, in barella. La mamma al seguito, con che faccia ve lo potete immaginare da soli. Insieme a due infermiere con l’aria affranta.
Questa volta no, non voglio raccontare niente altro di quello che ho visto: il viso del bimbo, l’espressione della mamma, le immagini che scorrevano veloci sullo schermo della tac. Non voglio raccontarlo e stavolta nessuno riuscirà a convincermi a farlo.
Dico solo una cosa: che tutto questo non lo capisco e non lo capirò mai, nemmeno se dal monte Sinai dovesse ridiscendere la buonanima di Mosè con le tavole della legge in mano. Non lo capisco e sono incazzato: con il destino, con il caso, e se davvero dovesse esistere pure con Dio.
Sono incazzato perché ogni giorno assisto a battaglie estenuanti per tenere in vita centenari attaccati all’ultimo respiro con un filo di anima. Perché riusciamo a tirar fuori dalla bara i cadaveri, ma non un bambino di un anno e mezzo. Perché spendiamo milioni di euro per allungarci la vita di cinque anni: e poi in quei cinque anni guadagnati non riconosciamo più i nostri cari, ci pisciamo nei pannoloni, smadonniamo a briglia sciolta senza nemmeno accorgerci che lo stiamo facendo, come una specie di riflesso automatico.
Sono incazzato perché mi sento impotente.
Mi scuseranno i centenari, stasera: da domani tornerò in trincea e difenderò fino alla morte il loro diritto alla salute. Ma stasera sono incazzato: un po’ anche con loro, oltre che con la mia impotenza di medico. E anche se la mia incazzatura non ha senso e nessun motivo di esistere.