E’ un periodo, lo dico anche a costo di sentirmi dare del politicamente scorretto, in cui non è che ci si possa dire proprio orgogliosi del nostro paese. Da qualunque parti lo si guardi: dalla parte del parlamento, di chi all’estero ci osserva, da Lampedusa o da Vicenza. Che uno lo guardi da destra, da sinistra, dal centro o da una qualunque delle gradazioni intermedie che hanno diritto a par condicio sulle reti televisive. Che uno lo guardi dall’alto di un colle, o dal basso di un tugurio nel quale è costretto a vivere.
E poi c’è un’infermiera straniera, di un paese dell’Est Europa, che ha lavorato qui da noi per qualche anno. La quale era emigrata, perché questo è il termine corretto sebbene si sia tutti “cittadini” europei, perché nel suo paese non riusciva a lavorare per mantenere una figlia piccola. Finché non ce l’ha fatta più, la figlia le è mancata troppo e adesso se ne torna a casa; succeda quel che succeda. Ci penserà la provvidenza, avrebbe scritto qualcuno un paio di secoli fa.
Quando è venuta a salutarmi le si sono inumiditi gli occhi. Mi ha detto che sarebbe partita presto e che forse non ci saremmo più visti. E ha aggiunto: Ci tenevo a salutare, siete stati tutti così buoni con me.
Bene. Mi dispiace che quella ragazza vada via dall’Italia, ma almeno ci sarà qualcuno in giro per il mondo a dir bene degli italiani.