Su Quotidianosanità.it del 01/03/2014 c’è un articolo molto dettagliato su quali ospedali cosiddetti “piccoli” non andrebbero chiusi, e per quali motivi. Consentitemi un paio di riflessioni sull’argomento, una a carattere di vanto personale e una relativa alla questione.
La chiusura degli ospedali di minori dimensioni, questa me la dovete concedere, è da anni uno dei cavalli di battaglia di questo blog: ne ho parlato, per esempio, qui e, più recentemente, qui. Il razionale di questa posizione è quasi scontato: i tagli orizzontali che sono stati praticati negli ultimi anni in ambito sanitario, specie sotto il governo di quel mostro di Monti, hanno rappresentato l’esempio lampante di quanto poco il politico medio capisca di gestione delle risorse sanitarie (salvo l’esistenza di progetti precisi di smantellamento progressivo del SSN, simile a quello già messo in atto per la scuola, ma poi rischio di passare per complottista e ci rimango male). In sanità non occorre tagliare nulla, perché le risorse impiegate sono già al limite di guardia: bisogna piuttosto tappare i buchi, che sono incredibilmente numerosi e spesso ampi come il greto del Po.
Il politico ha ragione: la sanità oggi costa troppo, e intacca le finanze regionali per ben oltre il 50% della spesa complessiva (pur con differenze considerevoli tra regione e regione). Ma il politico ha anche torto: perché invece di studiare strategie economiche sulla media e lunga distanza preferisce lanciarsi in progetti di respiro molto breve che spesso sortiscono l’effetto opposto. Una tra tutti, la più ridicola: l’accorpamento dei primariati, cioè una follia perpetrata in nome di un risparmio economico men che risibile e che comporterà inevitabilmente sprechi da mala gestione dei reparti ospedalieri, che del SSN sono il cuore pulsante.
Alla fine la soluzione del problema è parsa chiara a tutti: sul territorio nazionale ci sono troppi ospedali, molti dei quali di piccole dimensioni e con capacità operativa non proporzionale ai costi di gestione. E’ uno scenario che deriva dalla folle gestione politica (e non solo in ambito sanitario) degli anni ’60-’80, in virtù della quale il segno della gratitudine del signorotto locale alla popolazione per essere stato eletto in Parlamento era la costruzione dell’ospedale sotto casa. Esempio? Date un’occhiata alla planimetria ospedaliera della provincia di Verona, e poi sappiatemi dire.
Gli ospedali piccoli, dunque, vanno chiusi. Ma, come sempre accade in Italia e come testimonia l’articolo del Quotidiano Sanità, con dei distinguo mica da ridere. Per esempio: e i piccoli ospedali già incautamente ammodernati e potenziati? E i piccoli ospedali allocati in aree povere o con difficoltà di comunicazione con i centri maggiori? E perché alcune provincie mantengono tutti i piccoli ospedali e ad altre, di maggior dimensioni, ne resta solo uno?
Come al solito, direbbe il mio amico Giancarlo, il dito punta alla luna ma tutti continuano a guardare il dito. Chiudere un ospedale è solo una delle tappe del rinnovamento gestionale sanitario, e non serve a nulla se non è accompagnato da due elementi chiave: l’accesso ai servizi maggiori, quelli che non soltanto rimangono ma devono necessariamente essere potenziati per supplire alla mancanza di quelli minori, e la creazione di una rete sanitaria territoriale in grado di gestire soprattutto i malati acuti non gravi e i malati cronici. Qualche idea l’avevo già espressa qui, insieme alle considerazioni di uno scrupoloso medico di medicina generale: la forza lavoro è già disponibile, è rappresentata proprio dai medici di famiglia e necessita soltanto di riqualificazione e riorganizzazione. Chiaro che questo scenario non piace ai diretti interessati (andatevi a leggere le esternazioni pubbliche di quel simpaticone del loro rappresentante e fatevene un’idea), ma francamente allo stato attuale non intravedo altre soluzioni.
In ultimo, l’amministratore politico. Che siano tempi di scelte difficili è indubbio. Scelte dolorose per i cittadini e complesse per i politici seri, che rischiano l’impopolarità e dunque la fine della loro luminosa carriera. Ma qui c’è in gioco la sostenibilità stessa del nostro sistema sanitario, ossia di cosa lasceremo ai nostri figli e nipoti: a conti fatti, credo sia meglio essere ricordati per scelte impopolari ma fruttuose che per aver tirato a campare per poi assistere impotenti al default del sistema.