Stasera c’è la luna gigante che brilla nel cielo.
L’ho passata con la piccola: abbiamo ordinato una pizza e ce la siamo mangiata insieme, sul divano, guardando “Mamma, ho perso l’aereo” (filmaccio inguardabile, quello della piccola peste americana è un cliché cinematografico che non riesco più a sopportare). Alla fine abbiamo saccheggiato l’ultimo gelato, nascosto in fondo allo scomparto del congelatore, e ce lo siamo mangiati un cucchiaino per uno.
A fine film siamo corsi a prendere il grande, che invece era a una festa di compleanno e come al solito stava giocando a pallone nel prato bagnato dall’umido della sera, tutto sudato, bellissimo. Ce ne siamo tornati a casa passando davanti al mio vecchio ospedale: che è accogliente, grande, con tutte le luci accese all’ingresso. Come un albero di Natale. E mi si è stretto per un attimo il cuore a ricordarmi dei giorni e delle notti passate lì dentro, in quella Radiologia gigante, di tutto quello che è successo in quei lunghi quattordici anni, delle persone che ho conosciuto, con cui ho lavorato insieme, dei pazienti che ho visto passare nelle mie sale diagnostiche, di quelli che sono guariti e di quelli che invece sono mancati perché noi medici non siamo stati abbastanza bravi o fortunati, o forse semplicemente perché il destino è così che aveva deciso.
Ma la stretta al cuore si è allentata subito. Le cose non accadono senza motivo, le lezioni che dobbiamo imparare hanno bisogno di un maestro e non possiamo prendercela con lui se la lezione è pesante e apprenderla costa sudore e fatica. I luoghi, le persone, ciò che ci accade: tutto va e viene. Le occasioni sfuggite, gli errori a tempo indeterminato, i visi che non vedrai mai più, non sono importanti. Conta solo poggiare i piedi a terra, allargare le braccia e sentire il vento sulla faccia. Qui e ora.
L’ho detto anche ai miei bambini: ma erano troppo stanchi per prestarmi attenzione. Li ho lasciati leggere dieci minuti e poi ho spento la luce, in silenzio, dopo avergli carezzato a lungo i capelli.