Quando si ride, quando si piange

di | 14 Ottobre 2011

Qualche giorno fa sono stato in una sala chirurgica: come a volte capita, ma sempre meno spesso perché non c’è tempo lavorativo per concedersi simili lussi, ho voluto controllare con i miei occhi se una diagnosi particolarmente ardita con cui mi ero cimentato fosse azzeccata o meno. Questa volta lo era: e la reazione, umanamente comprensibile, è stata di grande gratificazione personale. Diagnosi difficile azzeccata, radiologo contento. Non si sfugge a questa equazione, ci abituano così fin da piccoli.

Uscendo dal settore operatorio mi sono imbattuto in una donna di mezza età che piangeva in silenzio, seduta su una poltrona della sala di attesa. E lì, implacabile, mi ha colto un terribile ricordo.

Credo sia accaduto a inizio 1993. Nella mia università ferrarese l’esame di anatomia patologica, che all’epoca era un blocco unico da sei-otto mesi di studio, era preceduto da una prova pratica sul cadavere. Dovevamo seguire almeno trenta autopsie durante il corso; e ai più audaci, sotto la guida severa dell’anatomo-patologo (l’anatomo-patologo ha sempre un habitus severo, ma non chiedetemene i motivi), fu concesso il privilegio di asportare qualche organo interno.

Il giorno dell’esame, era una bella e fredda mattina di inverno, me l’ero cavata bene. Al cadavere oggetto di autopsia mi era stato chiesto di asportare il cuore. Reciso l’ultimo peduncolo vascolare il torace si era riempito all’improvviso di sangue: non me l’aspettavo, e soprattutto non mi aspettavo che il sangue di un cadavere fosse così freddo. Ero rimasto due secondi interdetto, poi mi ero fatto coraggio e avevo continuato a snocciolare nozioni su quanto osservavo.

Uscendo dalla sala settoria, come qualche giorno fa dalla sala operatoria, mi sentivo in preda a una illogica esaltazione. Avevo passato (bene) l’esame, ero riuscito persino a fare una manovra decente sul cadavere, il professore barbuto e ironico mi aveva fatto pure i complimenti. Ero carico di adrenalina, insomma. Poi varco la porta di uscita, respiro l’aria pura e chi vedo? Una donna sola, seduta sul muretto di fronte, che piangeva in un composto silenzio. Le lacrime scendevano giù dalle guance rotolando come piccole perle di ghiaccio, e lei sembrava quasi una Madonna del quattrocento ai piedi del figlio crocifisso.

Pensai che quell’uomo a cui avevo tolto il cuore, pochi minuti prima, potesse essere suo padre o suo marito: e l’adrenalina svaporò di colpo nell’aria del mattino. Mi sentii più che altro molto stupido, fuori posto, mi sembrò mostruoso che la mia gioia personale potesse coincidere con un dolore così grande. E in quel momento, lo confesso, mi sentii anche molto umile, perché ero al cospetto di un evento tanto più grande di me.

Tornai a casa in bicicletta con un saporaccio in bocca. La morte di un uomo qualunque mi aveva regalato una delle migliori giornate di un periodo infame come quello che all’epoca stavo vivendo. E ne aveva regalata una tremenda a un’altra persona, una donna per cui quell’uomo era affetto e parole e ricordi e chissà quante altre cose ancora, e non solo un groviglio di budella prive di vita.

E’ un saporaccio che avverto ancora oggi, a quasi vent’anni di distanza, ogni volta che il mio ego lavorativo si gonfia troppo e si gonfia inutilmente. Oggi, se solo ne avessi l’occasione, vorrei poter ringraziare quella donna seduta sul muretto: con le sue lacrime, temo, mi insegnò sul mio lavoro più dei sei anni universitari di medicina.

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