Già, perché tutti sbagliamo. Con più o meno impegno, con più o meno stile e con più o meno raccapriccio personale, ma tutti noi radiologi sbagliamo. Sbagliamo al punto che certe volte, quando l’errore ci si appalesa e lo possiamo guardare diritto negli occhi, ci ricordiamo esattamente di quell’esame, del tempo perduto a cercare di capirci qualcosa, del ragionamento che ha sotteso quella conclusione diagnostica e non un’altra. E di come tutto sembrasse quadrare come in un’equazione matematica, quando le conclusioni le avevamo messe nero su bianco: perché noi siamo gente che non si accontenta di descrivere quello che vede, altrimenti è giusto che ci si chiami fotografi. Noi vogliamo concludere sempre, concludere a qualunque costo, anche a costo di perderci gli occhi e la testa; e anche se nostra moglie ci rimprovera perché a letto, invece di leggere un romanzo qualunque, sfogliamo l’articolo scientifico che neanche a farlo apposta parla proprio di quel caso lì.
Certo, quindi, che quando l’errore arriva colpisce e colpisce duro. Perché, nonostante il nostro vergognoso status di dipendenti pubblici, ci impegniamo al massimo e il problema, per noi che sbagliamo, non è tanto la rabbia dell’errore in sè, o che un nostro collega abbia sgamato l’errore alla prima occhiata, o la brutta figura fatta con l’altro collega ancora che l’esame ce lo aveva proposto. E, paradossalmente, è relativo anche il problema del danno fatto al paziente, se danno c’è stato: perché ormai il danno è stato fatto, dunque si può solo cercare di contenerlo entro limiti accettabili.
Il problema grosso, almeno per quanto mi riguarda, è un altro: che il paziente possa pensare che occupandomi del suo caso io sia stato negligente, distratto, superficiale. Ossia, che non mi sia comportato, come recita il codice, da bravo padre di famiglia. E invece posso avere tanti difetti, come radiologo, ma gli unici che non ho sono proprio quelli: la negligenza, la superficialità, la distrazione. E so di stare sempre dietro a un caso come un cane da tartufi, come il sergente di Rambo, come Bartali dietro a Coppi.
E allora sapete come mi sento? Da bambino ricordo che nel mio paese c’era una bottega in cui si riparavano biciclette, gestita da un signore che all’epoca mi sembrava vecchissimo, ma che probabilmente non aveva più di sessant’anni. Alla bottega si accedeva tramite una porta, e non c’erano finestre. I muri erano scuri, non so se per la fuliggine o altro, e sapevano di umido. Alle pareti erano attaccati gli attrezzi, e terra invece giacevano biciclette di ogni genere, intere o in pezzi. Sulla sinistra, rispetto alla porta, c’era un bancone di legno in cui l’aggiustabiciclette svolgeva il grosso del suo lavoro.
Un giorno gli ho portato la mia bici arancione. Non mi ricordo che problema avesse, so solo che lui ne aveva smontato un pezzo e si era sistemato sul bancone a dargli un’occhiata. E io, che curioso lo ero già all’epoca, mi ero avvicinato per vederlo all’opera.
Dopo qualche secondo di silenzio il vecchio meccanico, senza alzare gli occhi dal bancale e mormorando tra sè e sè, come se nemmeno esistessi, disse (traduco liberamente dal dialetto del mio paesello natio): Possono essere grandi o piccoli. Possono essere intelligenti o stupidi. Possono essere di buona famiglia o figli di disgraziati. Ma tutti, e dico tutti, si mettono davanti alla luce che arriva dalla porta e io non vedo più un cavolo.
Ecco, quando nel mio lavoro commetto un errore io mi sento esattamente come mi sentii quella volta lì: a metà strada tra l’umiliazione per l’errore compiuto e la frustrazione per non esserci arrivato da solo, all’evidenza che sistemandomi tra il meccanico e la porta a lui non arrivasse più luce sufficiente per il lavoro. Torno per qualche istante quel bambino di otto anni: e ricordo di essere stato così poco sveglio da non aver nemmeno compreso al volo la natura del rimprovero del vecchio meccanico di biciclette.
Torno bambino e, credetemi, certe volte tornare bambino non è così bello e dolce come si dice.