Quel faro alle Fær Øer

di | 14 Ottobre 2015

La vita, certe volte.

Sono in ecografia e parlo con il mio paziente. Lui mi racconta dei suoi guai di salute e dice: Mi seguiva il dottor ***, sa, quello che è morto all’improvviso la settimana scorsa.

Come morto, faccio dentro di me senza far trapelare nulla della mia terrificante sorpresa. Cazzo, come morto? Poi, al termine dell’esame, mi rifugio in bagno e chiamo il suo primario.

Gli è successo qualcosa? chiedo. Mi accorgo che mi trema la voce.

Certo, risponde lui, altrettanto triste, E’ morto dieci giorni fa, un tumore fulminante. E proprio nell’organo di cui si occupava, ironia del destino.

E lì, superato l’attimo di sgomento che accompagna sempre la notizia della scomparsa di una persona cara, in questo caso un collega con cui ho discusso casi per tredici anni, fatto congressi insieme, un collega che solo qualche mese fa mi ha mandato una mail (che ancora conservo) solo per dirmi che un mio referto TC era da 30 e lode, mi sono dovuto chiedere: Ma io, in questo momento, dove cazzo sono? Dov’ero mentre succedevano tutte queste cose e io, che ho sempre vissuto la vita del mio ospedale come un pesce di branco, non ne sapevo niente? Così, ho avuto la certezza matematica di non esserci stato per niente, negli ultimi tempi, e di aver vissuto, come mi ha appena suggerito per telefono una carissima amica, con il pilota automatico attaccato giorno e notte. Mi sono recato al lavoro, insomma, ho refertato esami, sbrigato pratiche burocratiche, controllato l’ora perché dovevo prendere i bambini a scuola, rivisto il mio passato e programmato il mio futuro, ma senza minimamente esserci. O essendo altrove, rifugiato seppur virtualmente in quel famoso faro del Fær Øer dove avrei tanto desiderato passare le ultime settimane appena trascorse, lontano da tutto e tutti, senza accorgermi che ero già lì, in algida solitudine, a guardare come un cretino l’oceano in tempesta.

Per cui, da stasera, basta così. Adesso ho solo voglia di uscire, mangiare a quattro palmenti, bere come una spugna e ridere fino a sentirmi male con i miei amici. Poi tornerò a casa, sperando che sia molto tardi, accenderò una candela al mio amico e collega e festeggerò insieme a lui il ritorno nel mondo. Il suo, spero, definitivamente migliore di quello che ha appena lasciato, senza che io lo sapessi. Il mio, invece, tutto da inventare: ma non mi è mai mancata la fantasia, e se è per questo nemmeno la testa dura. Che tra qualche giorno cambia tutto: ma questo già lo sapete.

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