Questo post completa idealmente una sorta di trilogia sulla comunicazione politica, cominciata qui e sviluppata qui, che è estensibile anche ad altre modalità comunicative più o meno tecniche: per esempio, tanto per restare sull’argomento a noi caro, quella degli ambienti sanitari (su cui torneremo a fine chiacchierata). Il titolo non vi tragga in inganno: così come negli altri due precedenti, il soggetto del post è un pretesto, un mezzo per spiegarvi il punto di vista e non il fine della discussione stessa. Nella quale tirerò in ballo anche esponenti di altre forze politiche, preferisco dirlo subito, senza prendere posizione verso nessuno (anche perché, me lo dovete consentire, c’è ben poco da prendere posizione in mezzo allo squallore terrificante in cui ci muoviamo).
Matteo Renzi, è abbastanza innegabile, insieme a Grillo è stato il vero innovatore di un linguaggio politico che stagnava da parecchi decenni e di cui il buon Enrico Letta, pace all’anima (politica) sua, è stato forse l’ultimo e non rimpianto alfiere. Grillo ha scelto fin da subito il linguaggio secco dell’uomo della strada e lo ha portato al parossismo, superando a sinistra (o a destra, a seconda dei punti di vista) l’uomo della strada, e Renzi ne ha scelto un altro. Mi sono letto per intero, con grandissima pazienza, il suo discorso al Senato: questo è quanto sono riuscito a capire.
Renzi è giovane: ha la bellezza di 6 anni meno di me (il che mi da la misura triste di quanto stia invecchiando, ma questo è un altro discorso). Parla un linguaggio nuovo, sradicato dalle regole linguistiche polverose del secolo scorso, mutuato dall’accelerazione che hanno impresso alla nostra lingua i nuovi ritmi e contenuti televisivi degli anni ’80 (non a caso fu concorrente de La ruota della fortuna. Io, per esempio, da Mike Bongiorno non ci sarei andato nemmeno morto: ma ero già di un’altra generazione televisiva, probabilmente). Parla il linguaggio semplificato dell’uomo della strada, ma senza usare i roboanti vaffanculo grilleschi. Renzi ribalta sistematicamente il punto di vista a cui siamo abituati da sempre: spiega i problemi agli interlocutori partendo non dalle premesse ma dalle soluzioni, e poi procede a ritroso. Che è pure geniale, come idea, perché permette a chi lo ascolta di seguire il suo ragionamento con maggiore cognizione di causa e soprattutto maggiore empatia. Renzi scavalca lo steccato, si mette accanto a te e ti spiega le cose dal tuo punto di vista. Anche Grillo scavalca lo steccato, beninteso, ma quando lancia i suoi improperi contro il mondo intero non è propriamente accanto a te: e tu resti a guardarlo con una sorta di timore reverenziale, allo stesso modo in cui guarderesti il tuo insospettabile vicino di casa sbroccare perché qualcuno gli ha parcheggiato il SUV davanti al cancello di casa per l’ennesima volta.
L’uso delle parole e dei gesti però, talora, frega tutti e due. Renzi è bravo, sa parlare a braccio, è ironico e pungente; ma a volte lo frega il linguaggio del corpo. Ai tempi della specialità c’era uno strutturato con un vezzo che mi atterriva: incontrando un collega lungo i corridoi dell’ospedale spalancava la bocca in un sorriso a trentadue denti, ma era un sorriso che durava il tempo esatto dell’incontro e poi si spegneva completamente, lasciando lo sguardo gelido. Si spegneva, ovviamente, perché non era un vero sorriso ma una specie di paresi facciale indotta dall’abitudine e probabilmente da una sorta di obbligata e falsa cortesia. A Renzi talvolta capita la stessa cosa: le telecamere sono spietate e registrano fedelmente ogni sguardo, ogni espressione del suo viso. Insomma il buon Matteo, pur con tutta la sua innovativa e potente carica comunicativa, deve ancora imparare qualcosa (e ovviamente non parlo dei suoi metodi politici, che riguardano la sfera politica e che peraltro mi lasciano abbastanza perplesso).
Il mondo dei cosiddetti grillini, a prescindere dalla pesante influenza dei due guru, ha problemi comunicativi di ben altra natura. Osservare dall’esterno le modalità con cui una massa informe di persone comuni sta costruendo un partito politico ha qualcosa di avvincente. All’inizio erano tutti uguali, facce sconosciute al grande pubblico e anche a loro stessi. Avevano il divieto ferreo di presentarsi in televisione: non perché, come dimostra l’atteggiamento corrente, la televisione sia il demonio (anzi), ma semplicemente perché non era ancora chiara nel gruppo una gerarchia basata sulle capacità di comunicazione. La scelta dei primi due portavoce fu, semplicemente, disastrosa: adesso hanno aggiustato il tiro e hanno messo in prima linea quelli giovani, carini e con la parlantina sciolta; ma inciampano sistematicamente negli stessi ostacoli. Il primo tra tutti, ovviamente, è quello semantico: quando rivesti un ruolo istituzionale non puoi più permetterti di usare il linguaggio becero di Grillo, diventa imbarazzante persino esporre al pubblico ludibrio il cordone ombelicale che li lega al loro patròn ed è indispensabile costruirsi modalità alternative di comunicazione. Ma i ragazzi sono giovani, fino al giorno prima facevano altro o addirittura non facevano nulla: si sentono costantemente assediati dai mass media e quando vengono presi in mezzo (ricordo nitidamente l’intervista della Bignardi, peraltro politicamente scorrettissima, a Di Battista) non riescono a giocarsela sulla sola dialettica; anche perché o hai contenuti che sottendano la dialettica, o la dialettica crolla e ti rimane solo la faccia finto-intelligente da Che Guevera de noantri. Il che dimostra inoppugnabilmente la mia teoria che a questo mondo non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo le stesse capacità e lo stesso tipo di intelligenza e non siamo intercambiabili: mi rifiuto di pensare che qualunque cittadino, a prescindere dal suo background culturale, sia in grado di affrontare un problema, comprenderlo e trovare le soluzioni migliori. Che è poi l’altra buccia di banana sulla quale scivola Renzi: sei il presidente del consiglio, non puoi andare in giro a dire che se ci sei riuscito tu ci possono riuscire tutti. Tu sei il presidente, dunque per definizione sei la migliore scelta possibile. Almeno fino a prova contraria.
Queste considerazioni dovrebbero essere preziose per chi, come le amministrazioni ospedaliere, si gioca buona parte del proprio successo sulle modalità di interazione e comunicazione con i dipendenti e il pubblico. Il problema è molto sentito, si capisce chiaramente che il nodo della questione sta proprio lì, ma inspiegabilmente sono ben poche le amministrazioni che investono in modo concreto su questo tema. I convegni sugli sviluppi futuri della sanità, sull’etica della medicina nel terzo millennio o su tutto il diavolo che può coinvolgere la professione medica nel terzo millennio rimangono occasioni sterili in cui le enclavi dirigenziali se la raccontano e se la ridono in algida solitudine. Mentre invece bisognerebbe scendere nelle strade, tra la gente, e usare il linguaggio di Renzi anche se si vogliono esprimere contenuti antitetici: scavalcare lo steccato e parlare ai medici, a tutti gli operatori sanitari, ai pazienti, dal loro punto di vista. L’investimento sembra enorme e invece non richiede molte risorse ma solo idee innovative, e soprattutto comporterebbe un grande risparmio in termini di appropriatezza prescrittiva, di numero e qualità delle prestazioni erogate, di diatribe medico-legali con relativi indennizzi: insomma, tutto quello che sta mandando in vacca il nostro sistema sanitario.
In conclusione, ve lo dico sinceramente e anche a costo di diventare impopolare: secondo me mai come adesso la sopravvivenza della sanità italiana è nelle mani degli ammistratori, e mai come adesso è indispensabile che gli amministratori imparino a comunicare con medici, paramedici e utenti del servizio sanitario. Certo, rimane la questione del linguaggio. E, certo, rimane la questione ancora più pesante della dipendenza dagli obiettivi e dai risultati: che spesso non sono obiettivi e risultati amministrativi in senso stretto ma politici, con tutto ciò che ne consegue. Questa è la grande sfida sanitaria di questi anni: togliere la sanità dalle mani dei politici e ridarla in mano ai medici e amministratori competenti, e soprattutto liberi di scegliere in autonomia.
Ma questo è un altro discorso, complesso e doloroso, e lo abbiamo già affrontato altrove.