Il tempo passa impietoso, spietato. E impartisce lezioni delle quali, in tutta sincerità, farei a meno.
Tipo.
- Un ragazzo se ne sta tranquillo a bere una birra con gli amici, passano due coglioni vigliacchi e gli sparano addosso. Risultato: il ragazzo non camminerà più.
- Una donna lascia un uomo che la menava. Un giudice ingiunge a lui di non avvicinarsi alla donna perché riconosce la sua pericolosità, e l’uomo non trova niente di meglio da fare che cercare di bruciarla viva. Ma non d’amore. Letteralmente, bruciarla viva.
- Qualche anno fa, credo in metro a Milano, due donne si sono urtate per sbaglio e una delle due ha finito per piantare la punta dell’ombrello in un occhio dell’altra. Direi che anche questa storiella breve mi è rimasta impressa ben bene.
Ogni giorno, anche nel mio mestiere, è tutto un festival di incomprensioni, di persone che non riescono a comprendere le emozioni di chi hanno di fronte. Medici che non realizzano le paure e le ansie dei loro colleghi e dei loro pazienti. Pazienti che non si rendono minimamente conto del livello di stress e di stanchezza dei medici e degli altri sanitari. Che ignorano la complessità della macchina ospedaliera che in quel preciso momento li sta accogliendo, e urlano e minacciano e menano.
Il dramma del mondo attuale è che la nostra seconda vita, quella virtuale, ormai così connaturata alla vita reale da averla ampiamente sostituita, tiene le persone fuori dal confine del contatto diretto. Delle persone non sentiamo più la voce, non guardiamo gli occhi; al massimo ci dà fastidio l’odore di sudore che aleggia nei mezzi pubblici, di gente che non si lava molto.
Abbiamo perso una capacità vitale, quella dell’empatia. Il collante che tiene in piedi la società, in buona sostanza, la straordinaria virtù che fa di noi esseri compassionevoli e capaci di atti di eroismo e abnegazione inimmaginabili. L’abbiamo persa, credendo che tutto ci sia dovuto, che il successo non preveda fatica e che altrove e domani sia sempre meglio di qui e ora. L’abbiamo persa odiando in modo sconsiderato, per futili motivi, persone che ci hanno persino voluto bene, e impiegando le energie più preziose della nostra vita a immaginare nei particolari più minuti il loro male e la loro rovina.
Ecco, questo è lo stato dell’arte: a voi la scelta dell’arma di offesa, che tanto prima o poi si ritorcerà contro voi stessi. Per quanto riguarda me, io continuerò a sperare che un sorriso o un piccolo gesto di gentilezza abbiano più potere dell’odio che viene sparso gratuitamente in giro. E pazienza se invecchiando la mia capacità di empatia si acuisce così tanto da diventare a volte un dolore acuto che mi paralizza.
D’altro canto ho scelto di fare il medico, io, non il soldato di ventura.