La riflessione odierna parte dalla recente pubblicazione del libro “Scacchi e management”, edito da Il Sole 24 ore. Cito dalla descrizione: “Il mondo del management pretende che gli attori siano in grado di gestire il complesso sistema azienda sia al suo interno che all’esterno in un’ottica di competitività. Diversi saranno i temi che si affronteranno dalle regole del gioco alla geopolitica, passando per self-improvement, risorse umane e trading; gli scacchi sono un comune denominatore per queste aree, che ci portano a perseguire l’obiettivo del successo”.
Tenete a mente i seguenti punti chiave del libro: 1) l’ottica di competitività; 2) il self-improvement; 3) l’obiettivo del successo. Ci torneremo a fine chiacchierata.
Dopo aver vinto il concorso da primario, anni addietro, scoprii che entro un anno dalla nomina ero tenuto a frequentare un corso di formazione manageriale orientato alla sanità. Corso obbligatorio della durata di un anno, piuttosto costoso e a totale carico dei neo-direttori: due martedì al mese una full-immersione totale di una giornata intera nel mondo del management sanitario. In quell’anno furono toccati molti punti critici: le componenti tecniche del nuovo lavoro (per esempio le basi del budget annuo), la gestione del gruppo, lo sviluppo delle motivazioni nei collaboratori, la creazione di un ambiente lavorativo in grado di perseguire il successo.
Non scendo in particolari ma sarò sincero: alla maggior parte dei partecipanti quel corso non sembrò così fondamentale. Per non sembrare irriverente, nei confronti dei docenti che si sono succeduti nel corso di quei mesi, provo a spiegarmi meglio.
Guardate questo grafico. Sulle ordinate c’è il senso del dovere, cioè la molla che spinge le persone a perseguire la qualità nel proprio lavoro o quantomeno a essere funzionali agli obiettivi del gruppo in cui lavorano. Sulle ascisse c’è la percezione dell’importanza dei cazzi propri: locuzione, espressa in un vernacolo che spero vorrete perdonarmi, che indica tutto quello che può distogliere dal senso del dovere, quindi dagli obiettivi del gruppo, e che può essere declinata in vari modi (famiglia, salute, divertimento, guadagno, equità della gestione, eccetera).
Come appare intuitivo, il senso del dovere è inversamente proporzionale alla percezione dell’importanza dei cazzi propri: se una aumenta, l’altra diminuisce. Questo rapporto di proporzionalità inversa non è costante ma varia a seconda delle persone: se il lavoratore parte da un valore di senso del dovere molto elevato, e dunque ha una percezione relativamente ridotta dell’importanza dei cazzi propri, la curva di decremento derivante dalla percezione dell’importanza dei cazzi propri è meno ripida, e viceversa: questo fa la differenza tra una collega ideale e uno stronzo, con tutte le possibili gradazioni intermedie. La posizione del singolo lavoratore in un punto qualsiasi della curva che gli compete è variabile e dipende dalla situazione ambientale: più il luogo di lavoro è conforme alle aspettative del lavoratore, più quel punto si sposta verso l’ordinata; meno è conforme, più quel punto si sposta le ascisse. In ogni caso, qualunque sia la ripidità della curva senso del dovere/cazzi propri, il punto davvero critico è dove essa impatta con la soglia sotto la quale il senso del dovere diventa così basso da generare stronzaggine (intesa come scarsa capacità di collaborazione e volontà di mettere bastoni tra le ruote al sistema) nel lavoratore, anche quello ideale. È lì che si genera un serio problema per il capo, e nessuna scuola superiore di sanità ti insegna a risolverlo.
Il compito del capo, a questo punto appare ovvio, è spostare il più possibile la curva verso destra, e tenerla lì a ogni costo. È lì che si misurano le sue autentiche qualità, pare. Ma chi è, in buona sostanza, un capo? Come possiamo definirlo con precisione?
Un tentativo, sempre al corso manageriale, fu fatto nella lezione di esordio evocando la figura mitica di Ernest Shackleton, l’esploratore che guidò la spedizione Endurance al Polo Sud. Non importa conoscere i particolari della vicenda (chi è interessato può godersi, cliccando qui, la puntata di Quark dedicata a Shackleton e alla missione dell’Endurance): il succo della questione è che l’impavido esploratore, a detta tutti coloro che ne hanno fatto il simbolo universale della leadership, riuscì a tenere unita una squadra di uomini ormai condannati alla morte peggiore che mente umana possa concepire e a condurli a una salvezza del tutto insperata, attraverso pericoli straordinari e in un territorio inospitale come potete immaginare l’Antartide nella stagione invernale, quando la temperatura può scendere, ma scendere è un termine riduttivo, fino a 70° sotto zero. Il narratore, durante la lezione, diede l’idea di un gruppo coeso fino all’inverosimile in cui nessuno ebbe mai un cenno di dissenso, una nota di sfiducia nelle virtù del capo. Di una squadra così fedele al suo capitano da non mettere mai in discussione, appunto, la sua leggendaria capacità di leadership. Ma la storia racconta una versione differente: i suoi uomini avevano mostrato eccome, segni di malcontento e sfiducia nel loro leader. Quando Shackleton diede l’ordine di uccidere i 70 cani da slitta, gesto doloroso ma compassionevole perché in alternativa le povere bestie sarebbero andate incontro a una morte molto più terribile, gli diedero alle spalle dello stronzo privo di pietà. Quando chiese al fotografo di scegliere solo un centinaio di lastre fotografiche, e di sacrificare le altre perché non avrebbero potuto trasportarle sul pack, l’altro rispose sprezzante che in buona sostanza si erano persi chissà dove e senza nemmeno sapere in che modo: altro che riconoscimento della leadership, quello era incazzato nero e aveva la fiducia nel suo capo spedizione letteralmente sotto i piedi.
E allora qual era il segreto di Shackleton, ciò che lo ha reso un’icona moderna della leadership? Bella domanda. Il vero punto chiave dell’intera vicenda, secondo me, stava nel testo dell’inserzione di giornale con la quale Shackleton aveva reclutato i 28 uomini della spedizione. L’inserzione così recitava: “Cercasi uomini per spedizione rischiosa. Paga bassa, freddo estremo, lunghi mesi nella più completa oscurità, pericolo costante, nessuna garanzia di ritorno. Onori e riconoscimenti in caso di successo”. Eccolo il vero segreto del successo impossibile di Shackleton, altro che chiacchiere: i suoi erano uomini senza paura, e così motivati da avere il coraggio di rispondere a un’inserzione di quel genere. Perché nella vita reale è quello l’elemento chiave: il coraggio, che a sua volta determina la capacità di abnegazione e di sacrificio, che a loro volta determinano l’endurance, cioè la perseveranza e la resistenza. Cioè la possibilità di tornare a casa vivi.
Le fortune di un leader, non c’è niente da fare, sono legate indissolubilmente alla pasta di cui sono fatti i suoi uomini. Ma non basta, sarebbe troppo semplicistico: bisogna fare i conti anche con l’ambiente in cui si sviluppa l’attività di questi uomini. Perché esistono solo due valori (o disvalori) intorno ai quali è possibile aggregare un gruppo di uomini: la motivazione e i risultati. Un fulgido esempio di motivazione è la missione Endurance di Ernest Shackleton. Un altro esempio, meno estremo e a noi più prossimo, è l’ambito universitario. Per soddisfare l’ambizione della carriera universitaria, lo sanno tutti quelli che ci hanno provato, bisogna sottostare alle regole imposte dal professore ordinario: quelle regole non sempre sono logiche e spesso contengono elementi di puro sadismo (avete visto il film “Il diavolo veste Prada”? Appunto). Ciò che in una situazione normale ci manderebbe alla deriva, esasperati, e quindi alla ricerca di un nuovo posto di lavoro, se invece si è abbastanza motivati diventa sopportabile. Come direbbe anche oggi Protagora di Abdera, se fosse vivo e di mestiere facesse il motivatore (il che non ci sorprenderebbe perché i retori, come buona parte dei motivatori odierni, erano dei gran paraculi), l’uomo è misura di tutte le cose.
Un esempio di risultato è invece il seguente: poter distribuire ai propri collaboratori cospicui premi legati al suo raggiungimento. Ti faccio lavorare come una bestia ma a fine mese o a fine anno la tua busta paga giustificherà la fatica e il tempo regalati al lavoro. Il vero problema, questo dopo oltre vent’anni di lavoro l’ho capito bene, non è mai quanto lavori ma quanto vieni pagato: incidentalmente, si fa per dire, questo è proprio il nodo alla base della crisi di reclutamento dei medici nelle strutture pubbliche.
Ma c’è un particolare che spesso viene trascurato: l’aggregazione dei gruppi di lavoro ha molto a che fare con le leggi della domanda e dell’offerta. Quanti di voi hanno abbandonato un lavoro, un gruppo affiatato, un capo illuminato, solo perché da qualche altra parte vi avevano offerto più soldi? E quante volte siete stati voi a rilanciare con il vostro capo, a fargli intuire che la concorrenza vi aveva offerto un aumento cospicuo? Finché il mercato del lavoro lo ha permesso, almeno nel privato, questa era la norma. Arrivavi in un posto di lavoro, ti facevi benvolere, svolgevi diligentemente il tuo compito e poi rilanciavi. I capi facevano due conti: se valevi la pena ti concedevano l’aumento di stipendio o lo scatto di carriera; in caso contrario saluti e grazie, quella è la porta. Ma la premessa è che tu avessi davvero pronto il piano di riserva, cioè che da qualche altra parte ci fosse un capo disposto a concederti quanto richiesto. In un certo senso, era necessario che a) tu valessi davvero quello che millantavi di valere e b) che il mercato avesse bisogno delle tue competenze e fosse in grado di assorbirti alle tue condizioni.
Tornando a bomba: chi è allora il Capo? Che declini l’organizzazione lavorativa in modo verticale (io comando, voi ubbidite) o in modo orizzontale (io sono uno di voi, coinvolgo, coordino e non ordino), il Capo è quella persona che in qualche modo deve tenere i colleghi sopra la soglia della stronzaggine. Su questo aspetto c’è gente che ha costruito una fortuna: prendete Daniel Goleman, per esempio, e tutti i suoi trattati sull’intelligenza emotiva e la gestione emotiva della leadership. Ma i trattati sulla leadership, ahimè, non tengono conto della situazione ambientale. Nel privato, diciamocelo pure, o in certi ambienti selezionati del pubblico impiego dove la motivazione è intrinsecamente forte per l’ambizione dei singoli (l’università, dicevamo, ma anche per certe posizioni dirigenziali molto vicine al potere centrale), un Capo ha le palle dei collaboratori in mano. Lavori male? Non sei allineato? Ti faccio fuori. Lavori bene, sei affidabile e fedele? Ti farò guadagnare l’ira di Dio o farò di te un uomo potente, ma sappi che non avrai più una vita privata e la tua anima sarà di mia esclusiva proprietà. Certo, esiste la possibilità non remota che in un ambiente del genere, fortemente orientato alla competitività (vedi il punto 1 da cui siamo partiti), un collaboratore particolarmente dotato riesca a farti le scarpe: la filmografia americana è piena di esempi del genere. Diciamo che si tratta di rischio d’impresa.
Ma noi lavoriamo nel pubblico, a livelli medio-bassi, dove la motivazione è poca perché si guadagna una cifra non commisurata agli anni di studio, all’impegno e alle responsabilità. Venendo meno il punto 1, cioè l’ottica della competitività (perché una filosofia sballata di risparmio delle risorse ha di fatto ridotto all’osso gli obiettivi per i quali competere), e il punto 3, cioè l’obiettivo del successo (perché non esiste più un obiettivo per il quale sia conveniente competere, né economico né professionale), un Capo dovrebbe almeno poter lavorare sul punto 2, il self-improvement. In italiano, che suona meglio, si parla automiglioramento, cioè come far emergere la versione lavorativa migliore di se stessi: in buona sostanza, come imparare a risiedere stabilmente sopra la soglia della stronzaggine. Però, lo capite bene anche da soli, un Capo che abbia a disposizione solo l’arma del self-improvement parte svantaggiato: ti può capitare il collaboratore illuminato che le motivazioni le ha già dentro di sé, a prescindere, ma ti può capitare anche quello per cui l’importanza dei cazzi propri è preponderante; tanto più che il posto pubblico non lo può toccare nessuno e l’offerta è talmente ampia, al momento, che uno può decidere sui due piedi di andarsene a lavorare in altre strutture, pubbliche o private che siano. E capite bene anche che la figura del Capo, il quale per definizione è “la persona al vertice di un’organizzazione o di una gerarchia” (Dizionario Google), e quindi dovrebbe poter maneggiare agilmente gli strumenti del potere, nella sanità pubblica al momento vive una crisi strutturale. Non può premiare economicamente chi si distingue. Non può nemmeno più mandare ai congressi i più meritevoli, perché da oltre un anno i congressi in presenza sono stati aboliti per l’emergenza sanitaria ancora in atto. Non può punire in alcun modo chi gli rema contro, causando danni incalcolabili all’intero sistema, perché rischia la rivolta armata dei sindacati (i quali, al solito, difendono il lavoratore e non il Lavoro, con nocumento di tutte le parti in causa) o l’inoltro di certificati di malattia dalla durata epocale. Non può imporre un percorso di auto-miglioramento a chi non abbia voglia di intraprenderlo, e stiamo parlando della maggioranza.
Morale: mi fa ridere assai il paragone tra il gioco degli Scacchi, che è uno sport nobilissimo e complesso assai, in cui la matematica e l’estro fanno la differenza, e le teorie del management, che invece si fondano su una montagna di assunti non dimostrabili né quasi mai applicabili nella vita reale, specialmente quando si lavori nel pubblico. E mi fa ridere ancora di più, con il senno del poi, il progetto di aziendalizzazione della sanità pubblica: se vuoi trasformare la sanità pubblica in un soggetto vincolato alle regole e agli obiettivi delle aziende private, mi dispiace, ma devi dare in mano a chi gestisce l’azienda, a tutti i livelli, un potere effettivo e non fittizio. Invece è stato più comodo accentrare tutto il potere nelle mani di pochi, così da renderlo in apparenza di più facile gestione e soprattutto controllo. E senza accorgersi che nessuno può gestire tutto quel potere senza che gli dia alla testa, o che si commettano errori anche grossolani, o che si perdano di vista gli interessi di chi si avvale dei servizi stessi. Lasciando monche le figure intermedie, che si arrabattano come possono perché in genere il loro senso del dovere è molto spiccato, e sono destinate in ogni caso al fallimento: sia con la gestione autocratica che con quella demo/meritocratica.
Ma il bello della vita è che va a cicli. Un giorno più o meno lontano ci sarà di nuovo esubero di personale medico e gli equilibri cambieranno di nuovo. Quel giorno getteremo nella spazzatura il libro “Scacchi e management” e ritorneremo a vivere, felici. Nel mentre, ognuno trovi la sua collocazione naturale nel diagramma successivo,, che è complementare al primo. E se ci riesce, anche se è difficile, provi a trarre le sue conclusioni.
PS Grazie a Ottavio Davini, che mi ha segnalato la proprietà intellettuale del secondo diagramma, quello non mio (Carlo Cipolla, tratto da “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, in “Allegro ma non troppo”).