Se mi ami non aspettarti granché, io sono una scadente imitazione di Dio

di | 13 Novembre 2018

I miei nonni adesso non ci sono più, tutti e quattro.

L’ultima ad andarsene è stata mia nonna materna: 98 anni appena compiuti, decadimento cognitivo avanzato da almeno un decennio, al punto da non riconoscere più il nipote che aveva cresciuto con affetto materno, insomma una lentissima scivolata verso l’altro mondo che nessuno, nemmeno la peggiore persona del mondo, meriterebbe. Una morte che è stata una liberazione, in un certo senso, e che ci riporta all’argomento di cui ho parlato tante volte in questo blog: bisognerebbe poter morire con la stessa dignità con cui si è vissuti, e soprattutto non pretendere di vivere in eterno. Che è presuntuoso, tremendamente presuntuoso e in ultima analisi anche inutile per sé stessi e dannoso per chi ci sta vicino.

Ma i miei nonni, ah, loro vivranno per sempre con me, dentro i miei ricordi più cari. Lui, con la sua allegria cronica, la disponibilità suicida verso il prossimo che tanti danni ha portato anche al suo povero nipote, che si è sfracellato a terra nell’inutile tentativo di emularlo. Il nonno Giuseppe, con le mani grosse e il suo appetito gargantuesco: perché lui aveva fatto la guerra, diceva, si era puzzato di fame e non perdeva una sola occasione per mangiar bene e bersi un bel bicchiere di vino rosso, a volte tagliato con la gazzosa. E lei, minuta, rotondetta, silenziosa, con quei capelli riccissimi e scuri che ha costretto in un casto chignon fino a che è riuscita, prima che con il peggioramento della malattia fosse più comodo tagliarglieli corti e sformati. Religiosa fino all’incredibile, ma in modo del tutto riservato, aveva con Gesù Cristo e i santi un rapporto speciale: quando fu ricoverata in ospedale, nel 1984, per un tumore maligno della parotide, ci raccontò che la sera prima del ricovero aveva sognato Gesù con un foglio di carta in mano, sul quale era vergato il numero 33. Nessuno, nemmeno lei, potè decifrare l’arcano fino al giorno della sua dimissione, che avvenne giusto 33 giorni dopo, dopo una parotidectomia totale che non aveva recato, incredibilmente, nessun danno al nervo facciale e sul viso nessuna cicatrice visibile alla prima occhiata.

Insieme facevano una coppia inverosimile: eppure tra mille difficoltà, il fascismo, la seconda guerra mondiale, la fame e la miseria, una figlia morta di polmonite e un’altra nata sotto i bombardamenti degli Alleati, fecero in tempo, prima della morte di lui, a festeggiare i 50 anni di matrimonio. Li ricordo soprattutto negli ultimi anni, quando l’indurimento delle arterie aveva reso il carattere di lui più spigoloso e la fatica di vivere reso lei ancor più silenziosa, come se le fosse finalmente diventato chiaro che al mondo è sempre meglio star zitti che parlare a vanvera. Lui guardava la televisione in poltrona, la stessa su cui ogni volta che tornavo a trovare la nonna, per anni e anni, mi parve di vederlo riposare anche dopo che era passato a miglior vita; e lei sfaccendava per la casa, sistemava, metteva in ordine, rovesciava la cucina con la furia silenziosa di un vento primaverile, lavava i piatti e spazzava via polvere e ragnatele dai mobili e dai muri. Ogni tanto, immagino, lui si irritava perché a sera avrebbe voluto starsene tranquillo a guardare programmi televisivi di cui non riusciva più a capire il senso, e che commentava con il leggendario “che puttanata” mormorato a denti stretti, con un disprezzo che solo ora, alle soglie dei 50 anni, sono in grado di comprendere fino in fondo.

In quei momenti il nonno era capace di perdere per qualche secondo la sua abituale allegria, insieme al controllo ormai traballante, e se la prendeva con la nonna. A volte, quando gli saltava il ticchio, cominciava a smoccolare. La nonna, turbata nella sua fede più cara, cercava di fermare lo sproloquio e quella era l’unica volta che la sentivi alzare la voce. “Peppino!” gli diceva con gli occhi spalancati.

Mio nonno quasi sempre, al quel punto, si fermava. La guardava serio serio, di sottecchi, le puntava contro il dito e si limitava a dire: “Io bestemmio, Ida, ma tu finirai all’inferno”.

Io tra me e me sorridevo e pensavo che nessun Dio, nel caso sventurato che un inferno esista davvero, avrebbe avuto cuore di spedirci l’uno o l’altra; e che l’amore, fatta la tara delle nostre cavernose stolidità, percorre strade tutte sue per raggiungere i propri scopi. Scopi che, per lo più, non siamo neppure in grado di immaginare e che forse trascendono le nostre stesse piccole, povere esistenze.

Mia nonna ha fatto in tempo a veder nascere ben cinque pronipoti, tre dei quali probabilmente era troppo rimbambita per riconoscere come tali e ricordarsi della loro esistenza. Ma non importa, perché in ognuno di loro circola un pò del suo sangue e ognuno di loro si porta dietro una piccola parte del suo codice genetico. Che poi si resta vivi così, trasmettendo qualche codone grazie alla fortuna inspiegabile di essere sopravvissuti a guerre, carestie, epidemia e colpi di sfortuna.

Ma, soprattutto, si resta vivi finché qualcuno continua a raccontare le nostre storie. Come sto facendo io adesso, con i miei nonni, e forse qualcuno farà con me quando sarà giunto il momento.


La canzone della clip è “Poor imitation of God”, di John Hiatt, dall’album (meraviglioso) “The eclipse session” del 2018. Se vi piace il rock, quello vero, quello sopravvissuto ai peggiori anni della musica mondiale, questa è la canzone giusta per rimettersi in pace con il mondo.

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