Noi italiani passiamo per un popolo di scansafatiche, in particolare se nati o vissuti al di sotto dell’Arno. Eppure siamo quelli, inequivocabilmente, in cui il rapporto tra il lavoro effettuato e il tempo utilizzato per eseguirlo è più sproporzionato.
Mi spiego meglio: dai miei resoconti personali ottengo sempre l’informazione che nei progrediti paesi anglosassoni, protestanti e produttivi, esiste un orario di lavoro piuttosto rigido che nessuno si sogna di mettere in discussione. Non conosco i particolari ma credo che, più o meno, almeno per la cosiddetta dirigenza il lavoro svolto non sia vincolato così strettamente al debito orario. E che comunque, fatta una certa, i lavoratori siano invitati a menare le tolle, cioè a pigliare la strada di casa.
Qui da noi, nel Paese del Sole, parrebbe invece vero il contrario. A parte l’ossessione del cartellino da timbrare (che nel terzo millennio, specie quando si parla di dirigenti, cioè di professionisti che dovrebbero lavorare per obiettivi, pare un’usanza quantomeno barbara), esiste questa abominevole relazione tra il tempo passato al lavoro e la percezione del lavoro effettuato o della dedizione allo stesso. Sembra insomma che se non presenzi il fortino 24/7, anche a rischio della salute o a detrimento della tua produttività, tu non sia degno di svolgere quel lavoro.
Lo vediamo anche a un livello più alto dell’uomo comune: il politico che, in tempo di crisi, non sacrifichi la sua esistenza sull’altare della presenza fisica alla propria scrivania, sembra immeritevole di rielezione. E pensare che sono stati gli stessi amministratori e politici a modificare la percezione del ruolo che rivestono: credo che nella Prima Repubblica nessuno, ma proprio nessuno, si permettesse di valutare la qualità del lavoro di un ministro della Repubblica dalla quantità di ore, presunte o reali, passate con la testa china sulle sudate carte.
E invece ho per tutti voi una grande notizia: non è così. Non-è-così. Io non voglio un amministratore-politico stakanovista, che invecchi di vent’anni per colpa dell’emergenza pandemica perché per mesi interi non vede la luce del sole, rinchiuso nella sua centrale operativa. Così come non vorrei che a curarmi fosse un medico sfinito dalle troppe ore continuate di lavoro, o insegnasse filosofia ai miei figli un professore stremato da pomeriggi interi di scartoffie o di schermate di PC.
Chi possiede una competenza specialistica deve essere tutelato, perché di questi tempi è una specie protetta. Il lavoro deve essere svolto nei tempi giusti (quello che intercorre tra l’inizio del lavoro e il momento, inevitabile, in cui si svalvola) e nel modo giusto (lavorando, quindi eliminando tutte le cause di distrazione e i problemi che altri dovrebbero risolvere), e poi si deve ritornare alla vita reale, alla famiglia e agli amici, alle cose di cui ci si occupa per diletto e non per dovere. Perché c’è un tempo di ricarica del cervello, lo sappiamo tutti, che non può essere eluso.
Mi piacerebbe insomma che la politica riorientasse questa cultura errata del rapporto tempo/lavoro che essa stessa, in un impeto suicida, ha contribuito a generare. Quantomeno mi sentirei meno in colpa quando alle quattro del pomeriggio incontro i miei collaboratori nel corridoio del reparto e la prima frase che mi viene, immancabilmente, è: Ma tu che cavolo ci fai ancora qua? Hai già fatto il tuo e quindi aria, fuori dalle palle, vatti a fare una vita.
La canzone della clip è “La stagione dell’amore”, di Franco Battiato, dall’album “Orizzonti perduti” del 1983.
B sera,i tuoi collaboratori sbagliano,perché un dirigente che si chiami tale non deve e non può essere legato al cartellino.
Il dirigente è sempre presente se ne facessero una ragione!!!
L’amico di Filippo
Mi dispiace, caro amico di Filippo, ma questa volta non mi trovi d’accordo. L’unico che deve esserci sempre, o quasi, al massimo è il Direttore: il primo ad arrivare e il penultimo a uscire. I colleghi la mattina dopo li voglio riposati, carichi, contenti di aver vissuto la loro vita fuori dall’ospedale. Se il sistema li vuole dentro più tempo bisogna che li paghi in modo adeguato, cosa che adesso non accade. Tempo e soldi sono un valore non equivalente, ma equiparabile.