Senza amore, dove saresti oggi senza amore

di | 22 Ottobre 2016

Lo so, lo so, dovrei terminare le diapositive del prossimo congresso e non ho nessuna voglia di sedermi davanti al Mac a lavorare. Per cui cerco di stare sul vago, leggo, fingo di dormicchiare, ascolto musica, ma il mio pensiero ogni tanto finisce lì. E all’improvviso, non premeditata, la grande idea: ecco cosa dovrei inserire per chiudere in bellezza la presentazione! Però oggi è sabato, sono un ragazzo padre e i bimbi dicono: Portaci alle Fiere di San Luca! Questa volta non puoi dirci di no!

Premessa: io odio le giostre. Da piccolo mi venivano i brividi al solo pensiero dell’odore di fritto e zucchero filato (in contemporanea!), per cui chiedevo ai miei di non portarmi e loro erano ben contenti di farmi felice. Insieme al circo, credo che le giostre siano il luogo del mondo in cui divento più triste. In assoluto. Da adolescente invece ogni tanto mi toccava perché alle giostre c’era il giro delle ragazzine: e così ho scoperto che, oltre al casino, anche le giostre di gravità mi fanno venire il vomito (in questo caso letteralmente). Ho ancora ben fissi in mente quei sei o sette minuti di girone infernale, incatenato a una ruota gigante che vorticava nel cielo nero, mentre io con gli occhi chiusi pregavo il Padreterno di trarmi fuori ancora vivo da quell’incubo (poi ebbi nausea per tutta la sera, insomma un disastro). Da adulto, che volete, tengo figli e quindi ogni tanto devo accontentarli: e oggi toccava a me.

Adesso la cosa che mi irrita più solennemente delle giostre è la musica assordante, l’idea psicotica che se in un luogo di assembramento non c’è bordello spaccatimpani non puoi divertirti (ora che ci penso, forse è questo il motivo per cui ho sempre evitato le discoteche. Oltre al fatto che, come dice il mio grande amico, sono uno schifoso radical chic che indossa solo Clarks). Ma stavolta sono rimasto incantato perché, a distanza di oltre trent’anni e a dispetto delle mode nulla è cambiato nella fauna giostresca. Ci sono sempre le stesse ragazzine un po’ grassottelle, ipertruccate e vestite in modo un tantinello vistoso, che si aggirano per gli stand con l’espressione perennemente in equilibrio tra l’imbarazzato e il predatorio. E ci sono sempre gli stessi ragazzini un po’ coatti, con il ciuffo sbiondato e il colletto del giubbotto tirato su, che si accalcano dando pugni da paura al punching ball per far vedere chi è il più figo della compagnia. Il guaio è che nemmeno si rendono conto che a tirare un cazzotto in quel modo maldestro il minimo che può succedere è che ti rompi un osso metacarpale, da cui la fatidica domanda: è possibile che non esistano materie scolastiche che insegnino a tirare di boxe senza farsi male?

Insomma, com’è e come non è sono riemerso dalla bolgia dantesca, ho ritrovato con qualche difficoltà il pandino parcheggiato a casa di Dio e riportato le creature all’ovile. Dopodiché, mentre loro leggevano uno Harry Potter e l’altra Geronimo Stilton, ho prodotto un’apprezzabile frittata al galbanino con contorno di pomodori; e mentre apparecchiavo e cucinavo mi sono ritrovato a ballare e cantare a squarciagola da solo.

E sapete un’altra cosa? Mentre ballavo come uno scemo mi sono completamente dimenticato di quale fosse l’idea brillante con cui chiudere la prossima presentazione congressuale.


La canzone della clip è la celeberrima “Long train running”, dei Dobbie Brothers, tratta dall’album “The captain and me” (1973). E’ proprio questa che ballavo e cantavo stasera, a tutto volume, come uno scemo, cucinando la frittata col galbanino e immaginando gli sguardi di riprovazione dei due giovani intellettuali distesi sul divano nuovo della sala (ma tanto poi la piccola è venuta a ballare con me, non c’è niente da fare e in certe cose il sangue non è acqua. L’altro invece è proprio uno schifoso radical chic che finirà per indossare lo stesso tipo di Clarks per tutta la vita).

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