Stavolta è successo a me. E non in ospedale, ma in vacanza.
Tornavo da un giro in auto: a pochi metri dalla destinazione finale ho intravisto da lontano un capannello di persone; più da vicino, una moto sfasciata su un marciapiede. Inclinata di lato: una tristezza che solo le moto inclinate su un lato sanno emanare.
Sono sceso dalla macchina, c’erano a terra due ragazzini. Ho prestato i primi soccorsi, c’era sul posto anche un collega accosciato accanto a uno dei due, e io mi sono soffermato sull’altro. Che non stava malissimo: cosciente, mu0veva gli arti, aveva il bacino a posto, ricordava tutto. Un piede rotto, forse, ma niente di grossolano.
L’altro l’ho visto di sfuggita mentre mi avvicinavo, proprio mentre arrivava a sirene spiegate il 118: gemeva ancora, lo sentivo nonostante l’ambulanza. E allora mi sono defilato, perché non c’è niente di peggio per chi deve prestare soccorsi urgenti che trovare confusione inutile sul luogo del fattaccio. Fossero anche colleghi volenterosi.
Il giorno dopo la notizia che il ragazzo, il secondo, quello che gemeva riverso sull’asfalto, non ce l’aveva fatta: morto all’arrivo in ospedale, nella migliore tradizione dell’urgenza. Quella in cui, se passa la prima ora dopo l’incidente, il paziente è spacciato.
E da allora ho un groppo in gola, proprio qui, un magone che non va né su né giù. Penso a quella scena terribile e mi viene da piangere: perché non ho potuto far nulla, perché sono capitato troppo tardi sul luogo dell’incidente, perché se anche fossi arrivato prima non sarebbe cambiato nulla. Perché il ragazzo aveva sedici anni. Perché la moto buttata a terra, con le ruote deformate, ancora me la sogno di notte: e si che ne ho viste di scene anche peggiori, con il mestiere che faccio.
Io parlo molto, e scrivo ancora di più: però ci sono situazioni in cui non so proprio cosa dire. Posso raccontare, ma non è la stessa cosa. Vorrei avere risposte. Risposte al dolore. Ma quelle non ce le ho.
Mi dispiace.