Come al solito, notte di guardia.
A mezzanotte mi chiama una collega dal pronto soccorso: ha sotto le mani una giovane donna con un sospetto di appendicite acuta. Dal tono di voce sento non ci crede molto, a quello che sta dicendo, ma è tardi e sicuramente anche lei è stanca morta. Per cui le dico di mandarla pure in radiologia.
La ragazza è ucraina e ha 35 anni: alta, bionda, molto bella. Parla benissimo italiano: e mentre le studio la pancia, dove non c’è ombra di appendicite acuta, lei parla a raffica e racconta di essere arrivata in Italia dieci anni fa. Devono essere stati tempi migliori, quelli, perché poi aggiunge che tutto era diverso, gli italiani erano più allegri e spensierati, nessuno era così incazzato come adesso, persino per le strade il traffico era più tranquillo e le automobili si fermavano per far passare i pedoni, piuttosto che accelerare per passare a tutti i costi prima di loro.
Io la ascolto e cerco di ricordare cosa pensavo dieci anni fa, che genere di aspettative nutrissi per il futuro. E scopro che quasi non me lo ricordo, che dieci anni fa ero solo molto preso dal cambio di ospedale, dal relativo cambio di casa e città, da mia moglie che finalmente ritornava a casa sua; e che mi dispiaceva lasciare quella bellissima città dove mi ero sentito a casa, veramente a casa mia, come non era mai accaduto da nessuna altra parte del mondo. Pensavo che non avrei più rivisto la cresta delle montagne innevata, aprendo le finestre della camera da letto nelle mattine di gennaio; che non avrei più vissuto in un luogo dove piovesse così tanto, con così grande soddisfazione, con tale copiosità che, come in Scozia, la mattina dopo il verde sotto casa era cresciuto di una spanna.
Oppure, forse, non avevo aspettative precise: ero giovane (allora sì che lo ero), non lavoravo da tanto, mi sembrava di essere molto ricco e non parlo solo dell’aspetto economico della faccenda. Credevo che tutto sarebbe arrivato con il tempo, che mi sarei guadagnato la strada con l’entusiasmo dei miei anni migliori; e nemmeno mi sfiorava l’idea che un giorno avrei patito, insieme ad altri milioni di europei, l’incertezza di una crisi economica di cui non capisco i meccanismi, e che il buon senso comune mi impedisce di accettare come un’evenienza possibile nella storia di qualunque società civile mossa da nobili intenti e retta da uomini saggi.
E allora non lo so se si stava meglio quando si stava peggio. So invece che noi stessi siamo la misura di tutte le cose, e che ciò non è un bene. Perché poi una notte può arrivare in pronto soccorso una giovane donna ucraina, con la parlantina sciolta, a ricordarci che non ci siamo solo noi al mondo.
E a ricordarci che non siamo la misura di tutte le cose, che non siamo proprio un cazzo di nulla.