Ognuno di noi convive con i propri demoni. Li nutre. Se ne fa nutrire. E così facendo rende la vita difficile a sé stessi e agli altri, in modi di cui spesso, e curiosamente, nemmeno riesce a rendersi conto.
Un vecchio specializzando, uno di qualche anno fa, uno di quelli adesso avviati a una carriera lunga e spero gloriosa, un pomeriggio di pronto soccorso mi guardò in faccia e mi chiese a bruciapelo: Ma essere medico per te, esattamente, cosa significa?
Rimasi sorpreso dalla domanda: fino a quel momento aveva parlato poco e si era tenuto sulle sue, limitandosi alle questioni tecniche per le quali era venuto a frequentare il mio reparto. Come spesso capita, prima di rispondere ci pensai su qualche istante. Cos’era per me all’epoca, ma veramente, nel profondo, essere medico?
Risposi che tanti affermano con una certa protervia che fare il medico è un mestiere come un altro, dunque è inutile darsi tutte queste arie da missionario, ma che io non ero d’accordo. Dissi che, comunque uno la voglia girare, questo mestiere ha a che fare con il sacrificio. Dissi che se avesse avvertito il bisogno impellente e inarrestabile di rimarcare le regole, di seguire le procedure fino all’ultimo comma, di attenersi a orari lavorativi da impiegato del catasto, la medicina di certo non sarebbe stata il suo mestiere ideale. Dissi anche che se la natura non ti ha dotato di abbastanza neuroni a specchio, cioè di una sufficiente quota di empatia, è meglio cambiare lavoro: se non riesci a immaginarti nella parte di un paziente, quando accade qualche intoppo, di qualunque tipo, e non sei disposto a trattarlo come tu vorresti essere trattato al posto suo, beh, meglio fare altro oppure rintanarsi in qualche centro privato a sbarcare il lunario. Dissi: se quando un paziente arriva in risonanza magnetica, non ha la creatininemia pronta o manca il consenso firmato al mezzo di contrasto, e tu tiri un respiro di sollievo perché puoi rinviare il suo esame, pensarci bene. Perché questo, probabilmente, non è compatibile con un’autentica vocazione alla medicina.
Ma non è finita qui. Se hai paura della tua stessa ombra, se scorgi rischi legali dappertutto, anche dove è improbabile che si nascondano e dove peraltro non ti hanno mai colpito perché in genere nel nostro mestiere si pagano gli errori gravi e non i vizi di forma, e se le tue energie sono concentrate a evitare quei rischi, meglio che lasci stare. Perché se tutti ragionassero in questo modo, gli dissi, nessun chirurgo aprirebbe più una pancia e nessun radiologo inietterebbe una sola goccia di contrasto nelle vene di nessun paziente.
E se l’importante per te è non sentirti sotterrato da quella pila di referti che crescono sulla tua scrivania, evitare l’esame più complesso perché ti costringerebbe a studiare qualcosa che non conosci o a sbilanciarti in diagnosi che non sei capace di fare, sbolognare l’esame di fine turno al collega che sta arrivando, anche in quel caso sarebbe meglio lasciar perdere. E se riesci a vedere, intorno a te, solo le cose che non funzionano, solo le piccole magagne quotidiane, gli errori involontari di persone che sbagliano uniti a quelli, inevitabili, di altre persone che invece cercano di mettere pezze a quegli errori, e non sei capace invece di scorgere la meraviglia di un sistema complesso che lentamente prende forma, si accende e comincia a correre, non sei fatto per fare il medico e per lavorare insieme ad altre persone.
La medicina ospedaliera, la medicina pubblica, sono prima di tutto un atto di fede e poi, ma solo poi, tutta la macchina organizzativa che ne consegue. Se non sei capace di guardare oltre la struttura fisica che ti contiene e che ti fornisce gli strumenti per lavorare, se non riesci a scindere le tue fatiche e le tue preoccupazioni dalle persone che in quel momento dipendono dai tuoi occhi e dalla tua attenzione, se non riesci a trovare motivi di entusiasmo in ogni momento, anche e soprattutto quando le cose sembrano andare in vacca, lascia perdere, semplicemente lascia-perdere. Non sprecare le tue forze per nulla, non devi per forza trovare un ordine perfetto in un fiume che scorre dentro gli argini, ma le cui correnti devi imparare a riconoscere se non vuoi affogarci o far affogare qualcun altro.
Oppure, conclusi, sforzati almeno di non rendere la vita difficile a chi lavora gomito a gomito con te; e cerca ispirazione, oltre che sicurezza, e cerca le soluzioni invece che soffermarti a piangere sui problemi, e a pensare che non è mai colpa tua e tu non c’entri niente.
Sono passati molti anni, da allora, e con gli anni io e l’ex specializzando ci siamo persi di vista. Oggi però, mentre tornavo a casa in macchina mi ha telefonato: dopo qualche convenevole di circostanza, legata alle mie recenti vicende lavorative, prima di salutarmi mi ha detto: Sai che devo ancora ringraziarti per le fantastiche parole di quel pomeriggio?
Io ho risposto con la frase, non di circostanza, che uso sempre in queste occasioni: Sono io che devo ringraziare te. Non mi avessi fatto la domanda giusta, non avrei mai detto quelle cose.
Da cui ne consegue che ogni nostro pensiero e ogni nostra azione determinano delle conseguenze, delle quali siamo responsabili fino in fondo. Ed è inutile cercare di convincerci del contrario: bisogna crescere, a un certo punto della vita, anche se crescere spesso è doloroso.
La canzone della clip è “Demons”, di James Morrison, tratta dall’album “Higher than Here” del 2015. James Morrison, che canta dei nostri demoni meglio di come la maggior parte di noi saprebbe fare, ha rischiato di morire, da bambino, per colpa di una pertosse micidiale che per ben quattro volte lo ha mandato in arresto cardio-respiratorio. E che invece di provocargli un grave ritardo mentale, come qualcuno all’epoca aveva paventato, gli ha lasciato la voce vellutata che tutti possiamo apprezzare e la consapevolezza impagabile che un medico può fare la differenza. Può farla sempre: non solo se si trova al posto giusto e al momento giusto, ma anche se lavora con la giusta disposizione d’animo.