Qualche tempo fa (credo in giugno 2012) recensii un libro insolito: quello in cui Michael J Fox raccontava la storia della sua tremenda malattia degenerativa. Avevo parlato in quella circostanza di “libri da cesso”: non perché il libro in questione fosse sgradevole (infatti mi era piaciuto molto) o perché volessi dare una accezione negativa alla mia definizione, ma solo perché esistono libri che devi leggere con calma, nel silenzio del tuo ambiente preferito, con il giusto tempo a disposizione (L’Ulisse di Joyce, per esempio; o Infinite Jest di DF Wallace), e altri che puoi leggere a pezzi e bocconi ogni volta che hai un attimo di tempo disponibile. Perché ci sono libri difficili e libri meno difficili, insomma, oltre che più o meno belli. Inutile dirlo, il mio unico tempo disponibile all’uopo, salvo l’ora serale di lettura, è da anni quello in bagno: dunque fatevi i conti e capite il perché della categoria appena inaugurata come Libri da cesso.
Il libro da cesso di oggi è “Stanley Kubrick e me“, scritto da Emilio D’Alessandro e Filippo Ulivieri, ed. Il Saggiatore. Sarò chiaro fin da subito: è un libro che, nel caso non abbiate mai visto un film di Kubrick e non abbiate intenzione di vederne alcuno durante la presente vita terrena, vi interesserà come un trattato di botanica del 1800. Ma invece, qualora come me abbiate visto tutti i film di Kubrick decine di volte, e ogni volta ci abbiate trovato dentro qualcosa di nuovo, e Kubrick sia assolutamente il vostro regista preferito, e che molto scorrettamente e cinicamente dareste via senza rimorsi un decennio di vita (cinematografica, of course) dei Vanzina per ridare un solo anno a lui e permettergli di girare quel film su Napoleone che non riuscì mai a mettere in scena (che poi in un anno solo, con i suoi tempi biblici, non ci sarebbe mai riuscito, ma questo è un altro discorso), leggetelo.
Emilio D’Alessandro, italiano della Ciociaria, emigrato in Inghilterra per sfuggire al servizio militare, è stato il suo assistente personale per anni. Più che assistente, forse, uno dei pochi veri amici. Ma più che amico, pavento, è stato una specie di nume tutelare, di factotum, di segretario personale, di parafulmine per le paranoie che non risparmiano nessun genio vissuto e vivente, figuriamoci uno della risma di Kubrick. E due cose colpiscono, dell’intera vicenda: la prima è che un uomo complesso come Kubrick abbia potuto fidarsi in modo così completo e totale di una persona tutto sommato semplice e poco colta come D’Alessandro; l’altra che Kubrick si comporta, in tutta la vicenda narrata da Emilio in prima persona, come quella matta schizzata della direttrice (mirabilmente interpretata da Meryl Streep) de “Il diavolo veste Prada“, ossia non lascia un secondo libero al povero Emilio, lo cerca di continuo per inezie che potrebbe risolvere da solo, per lui non esistono pause lavorative e bisogni personali (però lui è Kubrick, scusatemi, è l’altra solo una paranoica furiosa che si occupa di faccende tutto sommato risibili ed effimere come il mondo della moda; e poi credo che in fondo ci fosse affetto sincero anche da parte sua, del regista dico, verso il nostro piccolo Emilio).
Ne vien fuori l’unico ritratto in circolazione veramente attendibile del regista che ha cambiato le nostre vite di cinefili: le altre biografie, al confronto, anche se producono molto più materiale di ricerca non hanno lo stesso impatto emotivo di una storia narrata da chi accanto a Kubrick ci ha passato 40 anni di vita, giorno dopo giorno, set dopo set, storia dopo storia. Insomma, se vi piace Kubrick leggetelo subito. Se Kubrick non sapete nemmeno chi è, fate mente locale: uno dei film sicuramente l’avete visto in televisione, è Shining, ed è il film con il quale Kubrick, che nella vita ha diretto un solo film horror (quello, appunto) ha fatto vergognare per sempre i registi di categoria. Che poi magari vi vien voglia di guardare anche gli altri, ed è tutto grasso che cola.