Si parla tanto, in questo periodo storico, di “merito”: al punto che persino il Ministero dell’Istruzione è stato ridenominato – non senza qualche mal di pancia, anche da parte mia- Ministero dell’Istruzione e del Merito. Sottintendendo, in qualche modo, che il concetto di merito sia indissolubilmente legato all’istruzione che uno riceve: il che sarebbe di per sé un bello schiaffo per i laureati all’università della vita che si danno appuntamento sui social (ma su questo torneremo dopo).
Intanto, come è buono e giusto, partiamo dalla semantica. Il vocabolario Treccani della lingua italiana fa derivare la parola merito dal latino merĭtum, derivato di merere (meritare), e dà come primo significato “il fatto di meritare, di essere cioè degno di lode, di premio, o anche di un castigo”. Prima riflessione d’obbligo: merito è una parola bifronte e da sola non vuol dire niente, perché si può essere meritevoli non solo di lodi o premi ma anche di un castigo. In questo senso la ridenominazione del Ministero è potenzialmente foriera di un sano ritorno al passato, laddove la bocciatura di uno studente non era vista come un atto lesivo della sua integrità psicologica ma come il riconoscimento, appunto, di una mancanza di merito positivo. Ma non è tutto oro ciò che luccica.
Seconda riflessione: non soltanto la parola “merito” da sola non vuol dire niente, ma addirittura si comporta come un contenitore vuoto in cui è possibile riversare qualsiasi altro concetto. Faccio un esempio: negli ultimi anni, grazie anche alle problematiche psicoanalitiche emerse durante la pandemia, è stata molto intensa la presa di posizione di chi ha ritenuto che siccome le informazioni attualmente sono alla portata di tutti, grazie a Internet, la laurea non costituisce di per sé motivo di merito e non fornisce diritto automatico a chi è laureato di sostenere la bontà di una tesi. Il che, a una prima superficiale analisi, potrebbe anche essere vero. Ma c’è un problema: il merito, di per sé, non è concesso per il fatto stesso di essere laureati (ognuno di noi ha compagni di corso, regolarmente laureati, dei quali non ha mai pensato benissimo); e il merito dell’essersi laureati non consiste nella pergamena affissa sulla parete principale dello studio o della propria camera da letto. Il merito risiede nel fatto che durante un percorso di studi, più o meno accidentato, persone qualificate hanno valutato il tuo livello di competenza e ritenuto che fosse sufficiente. Il valore (il “merito”) della laurea sta nella certificazione del livello di competenza, non in altro. Il laureato di internet o all’università della vita, in linea del tutto teorica, potrebbe anche aver raggiunto un analogo livello di competenza: il problema però è che nessuno glielo ha certificato. A dire la propria sui social sono bravi tutti. Terminare un corso di laurea vuol dire aver accettato il giudizio di venti, trenta persone qualificate per esprimerlo. Non è una differenza da poco.
Terza riflessione: il merito ha un valore variabile e determinato dal contesto in cui viene applicato. Indro Montanelli, quando cominciò a scrivere la sua iconica Storia d’Italia (lettura affascinante a prescindere, perché Montanelli la penna sapeva usarla), fu travolto dalle critiche degli storici di professione. Lo stesso Alessandro Barbero, che pure come divulgatore gli sta alla pari, pur senza nominarlo direttamente lo dice spesso nelle sue lezioni pubbliche: il non-storico che si presta al racconto della Storia, anche se scrive bene, non può evitare di commettere errori di metodo. Montanelli, sprezzante, rispondeva ai cattedratici polemici, con grande sussiego, che se legioni di lettori compravano i suoi libri un motivo ci sarà pur dovuto essere, e che tanto gli bastava: il popolo è sovrano, come avrebbe detto una assai querula conduttrice televisiva, anni dopo, riferendosi alle votazioni per eliminare i partecipanti al Grande Fratello. Posizione ideologica quantomeno debole e anch’essa gravata da vizi di logica, mi viene da commentare oggi: come dire che se decine di migliaia di persone seguono profili di complottisti dell’ultima ora, allora quei complottisti hanno automaticamente ragione.
Quarta riflessione: il merito non è un valore assoluto e misurabile ma ha a che fare con la propria percezione del medesimo. Se uno si ritiene meritevole di un traguardo o di un premio, sulla base del proprio metro di giudizio, non c’è esame o concorso che tenga: chi lo ha scavalcato ha sicuramente altri motivi, illegali o quantomeno immorali, per aver vinto. Questo è il grande, irresolubile problema dei concorsi pubblici e ha a che fare con l’ipocrisia di cui è intriso qualsiasi consorzio umano: il merito non è mai assoluto, dicevamo, ma dovrebbe essere correlato al luogo in cui vanno espletate le funzioni del più meritorio. La colpa imperdonabile della politica è questa: non ragionare per progetti ma per opportunità del momento, senza pensare che le scelte sbagliate si pagano, e pure a caro prezzo.
Ma questo concetto è quantomai aleatorio e conduce direttamente alla foto di Pierfrancesco Favino, talentuoso attore nostrano, che allego al post e che gira su internet corredata da una frase che non sappiamo se apocrifa o meno: “Esistono i raccomandati ma durano poco. La raccomandazione non può arrivare dove non arriva il talento”. La frase trabocca di vizi di logica, ma non è questo il punto della questione. Il punto della questione è che a essere valutato non dovrebbe essere il merito ma il talento, e che il primo è una conseguenza del secondo e non il contrario. Altrimenti, alla fin fine, la frase di Favino è buona come lenitivo esistenziale per tutti coloro che nemmeno con la raccomandazione sono riusciti a certificare il loro presunto talento.
Conclusione: avrei preferito che la denominazione del Ministero restasse quella originaria, cioè legata alla sola istruzione. Preferisco che un Ministro si occupi dell’istruzione degli studenti in modo scientifico: al merito ci penserà davvero la vita, in un modo o nell’altro, e ognuno alla fine dovrà assumersi le proprie responsabilità per i risultati ottenuti.