Che poi è il titolo dell’ultimo libro-racconto di Saviano.
L’ho appena acquistato su Internet (scusami, Disagiato, anche io purtroppo possiedo un e-book reader…), non l’ho ancora letto e confesso senza pudore che la voglia di averlo tra le mani è nata non dalla curiosità per la storia raccontata dal Nostro ma dai ricordi che mi ha evocato quel pallone rosso stampato sulla copertina.
Perché, dovete saperlo, io provengo da un paese lontano un tiro di schioppo da quello in cui è nato Saviano. Dunque quando affermo di comprendere i motivi profondi delle sue narrazioni potete credermi: undici anni di differenza, ossia quelli che ci separano come età anagrafica, dalle nostre parti non costituiscono un gap generazionale. Perché dalle nostre parti le cose non cambiano mai, o se cambiano è in peggio e mai in meglio. Io, per esempio, ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza più tranquille delle sue: in parte perché i camorristi all’epoca erano più accorti, e non sparacchiavano come Tex Willer in mezzo alle piazze di paese la domenica mattina, e in parte perché dove abitavo io non c’erano conflitti tra famiglie contrapposte. Quando comanda uno solo i problemi sono risolti sul nascere e ci si può concentrare sugli affari; e addirittura meno clamore c’è e più gli affari vanno a gonfie vele. Il contrario del mondo del business convenzionale, insomma (un morto per strada, l’unico, lo vidi nel 1980: ma fu ammazzato nella piazza del mio paese per puro caso, in realtà lo stavano inseguendo e lo avrebbero fatto fuori ovunque i killer avessero arrestato quella sua fuga disperata).
La mia brevissima storia comincia in questo scenario del mezzogiorno campano tra fine anni ’70 e inizio anni ’80 (che tuttavia all’epoca sembrava meno cupo di adesso perché, lo ripeto affinché sia chiaro il concetto, i camorristi all’epoca erano più accorti o più intelligenti dei loro discendenti di inizio millennio): in un paese di campagna non ancora cementificato fino a togliere aria alla terra fertile che gli antichi romani chiamavano Campania Felix, lungo le cui strade transitavano pochissime automobili e in cui un po’ ovunque era possibile trovare miserabili spiazzi erbosi e/o polverosi dove ci radunavamo, noi ragazzini cresciuti in mezzo alla strada, per giocare a pallone. Il pallone, inutile dirlo, era proprio il Super Santos: abbastanza economico da poter essere acquistato con una colletta da cinquanta lire a testa, sufficientemente pesante da non volar via come un soffio di vento se il cross era troppo lungo (la sua versione ipereconomica, con cui era impossibile giocare un calcio decente, si chiamava Super Tele) e resistente quanto basta per non forarsi ogni volta che un tiro alla carlona lo spediva contro le ringhiere appuntite della casa di fronte. Oppure il Super Santos lo portava da casa uno di noi, e allora era lui a decidere tutto: anche di andarsene via con il pallone, qualora la partita non avesse avuto l’esito desiderato o fosse degenerata in lite. Ma in genere le cose filavano lisce: i due capitani, che in genere erano i più bravi con il pallone al piede, tiravano a sorte per scegliersi i compagni di squadra; e lo scorno era per gli ultimi rimasti, quelli che nessuno aveva scelto prima perché privi di qualsiasi attitudine al gioco del calcio. E poi si giocava. Una, due, tre ore: sembrava che la benzina in corpo a quell’età non finisse mai, mattina o pomeriggio, estate o inverno (ma da noi gli inverni sono miti, la neve non si vedeva mai). A volte il pallone finiva nel giardino della casa accanto e le opzioni possibili erano due: o il proprietario gentile ce la restituiva, pregandoci di fare meno baccano possibile, o il proprietario stronzo se lo teneva (varianti possibili: lo bucava lui a colpi di vanga oppure il suo cane ci piantava i denti, con il medesimo risultato). Altre volte il Super Santos terminava la sue breve e gloriosa vita contro una siepe di rose e impalandosi sulla guglia aguzza di una ringhiera: e allora la partita finiva mestamente, si raccattavano i maglioncini sistemati a terra a mo’ di pali di porta e si riprendeva la via di casa.
Adesso, che sono passati trent’anni e oltre da quei giorni, il mio paese di origine è al tempo stesso molto diverso da allora ma sempre uguale a sé stesso. Gli spiazzi erbosi sono stati violentemente cementificati e i ragazzi non giocano più in strada: d’altronde sarebbe impossibile anche se gli spiazzi fossero rimasti integri, perché il traffico è proporzionale a quello di una metropoli industrializzata. L’orizzonte che digrada verso il mare è irrimediabilmente deturpato da un colosso di centrale elettrica che non ha portato alcun beneficio economico al paese ma in compenso è già assurta agli onori della cronaca per le inevitabili collusioni di chi l’ha voluta e gestita con la solita, vecchia camorra. E i cui danni alla salute delle persone saranno quantificabili solo tra parecchi anni: ossia quando sarà troppo tardi per tutto, fuorché per le recriminazioni.
Io ci torno poco, nel paese in cui sono nato: troppe cose sono cambiate senza che io partecipassi ai cambiamenti, e le cose che sono rimaste uguali sono esattamente quelle che tanti anni fa mi portarono a cercar fortuna altrove. Alla fine finisco per sentirmi un estraneo, l’unico luogo dove incontro facce amiche forse è solo il cimitero. So che la crisi economica laggiù non farà gli stessi danni che sta producendo in larga parte del paese: perché la crisi, nel casertano, è sempre stata condizione cronica di esistenza. E mi viene da sorridere quando sento raccontare in tivù da corpulenti parlamentari in cravatta verde che dalle mie parti si evadono tasse in percentuale molto maggiore che, per dire, in Veneto o in Lombardia: bisognerebbe sapere di che si parla, e sapere che in Veneto il lavoro c’è ma in Campania non c’è mai stato (o, se c’è, è quello che crea la malavita organizzata). Insomma, è difficile evadere le tasse se non lavori: ma non voglio parlare di questo, il mio non è un post polemico o politico e non ho nessuna intenzione di rivangare un secolo e mezzo di storia italiana per spiegare i motivi di questa incredibile disparità economica tra i due tronconi del paese. Volevo solo raccontare che mi mancano molto quelle interminabili ore passate a prendere a calci il Super Santos, mi manca quel vento tra i capelli mentre guardavo le nuvole bianche che solcavano il cielo, mi mancano i ridicoli gesti di esultanza di quando facevamo gol (o di dispetto quando io, che ero il portiere, li paravo). Mi mancano moltissimo i pomeriggi di dicembre con il sole alto nel cielo e noi che giocavamo in maniche di camicia; mi mancano i minuti di attesa che tutti arrivassero e si facesse numero sufficiente, le chiacchiere del dopo partita, le prese in giro di chi aveva sbagliato il gol fatto o le lodi di chi aveva segnato quello davvero impossibile. Mi mancano i momenti in cui dalla porta guardavo svolgersi il gioco e la palla era per fortuna lontana dai pali che controllavo; le volte in cui pensavo, quando un giocatore era a terra con la caviglia gonfia, che se da grande avessi fatto il medico avrei potuto occuparmi io di lui. Mi mancano tanti dei miei amici dell’epoca, la maggioranza dei quali adesso vive altrove come me: senza rendersi conto che la loro scelta di vita ha finito per impoverire ulteriormente il proprio paese a arricchire terre già ricche di proprio.
Insomma, sono perennemente combattuto tra la gratitudine per la terra che mi ha accolto e i sensi di colpa per quella in cui sono nato: alla quale non ho restituito nulla di più prezioso che queste righe di stupida e stucchevole nostalgia. Per le quali vi chiedo perdono e comprensione, prima di ogni altra cosa.