Io, nella vita, ho avuto la fortuna di avere diversi padri. Quello biologico, prima di tutti, al quale devo la fiducia che mi ha accordato quando gli comunicai che avrei studiato medicina e gli standard molto elevati che pretendo da me stesso e da chi lavora con me: se si sopravvive a un genitore di quel calibro, credetemi, nulla può fare più paura.
Ma ho avuto anche altri generi di padri: Giorgio Gaber, per esempio, che mi ha insegnato a guardare il mondo da un’insolita angolazione e preparato con decenni di anticipo ai momenti difficili della mia vita. Il mio maestro elementare, anche, l’unico insegnante che mi abbia sempre e comunque spinto verso l’esercizio fine a sè stesso delle mie inclinazioni. Padri putativi per me sono stati, in tempi e circostanze diversi, Dante, Borges, Orwell. Ho anche avuto padri professionali, un paio in particolare, ma per pudore ne tacerò il nome.
L’altro ieri è passato in reparto a salutarmi un altro dei miei padri: il mio primo primario. Uomo d’altri tempi, a cui sono legato da un affetto che ha travalicato i confini del lavoro ed è andato molto oltre e molto a lungo. Protraendosi, in modi che all’epoca del mio primo incarico non avrei mai immaginato, fino a oggi.
Il mio primo primario è attualmente in pensione. Lavora ancora, anche se non ne avrebbe bisogno, perché la radiologia, a differenza della stragrande maggioranza dei primari ospedalieri di questo paese, gli piace ancora enormemente. Non fa molto, giusto qualche seduta ecografica a settimana, ma lo fa con la stessa cura con la quale mi insegnò parte del mestiere 13 anni fa.
Al mio primo primario un centro privato ha proposto, recentemente, sedute da 6 ecografie all’ora. Lui ha rifiutato non tanto per la tariffa della prestazione, che è adeguata alla miseria dei tempi, quanto per il numero di prestazioni orarie. Ha detto, secco: Non si possono fare sei ecografie all’ora, non c’è il tempo per dedicarsi al paziente. Le cose vanno fatte per bene e ci vuole il giusto tempo per ogni cosa, altrimenti l’unico effetto è che rimangano dubbi e si debbano richiedere altri esami, più costosi per la società e dannosi per il paziente.
Io, che pure a volte faccio sedute ecografiche che si avvicinano di molto a quelle propostegli, ho pensato che ancora una volta il mio vecchio primario ha ragione. Siamo qui, corriamo come matti, assillati dal problema delle liste di attesa e del bilancio quadrato, sfiniti dall’ansia da prestazione, e finiamo per dimenticarci che il nostro mestiere è occuparci delle persone e non dei tempi con cui le gestiamo. Così, adesso, ogni volta che mi sentirò assillato dagli eventi cercherò di ricordare la sua sagoma tranquillizzante nella penombra della sala ecografica, quando se ne stava seduto accanto al paziente e oltre a impiegare il giusto tempo per parlare con lui e garantirgli una corretta diagnosi conservava l’accortezza di fotografare le immagini in modo che significassero qualcosa, e non a casaccio come la maggior parte degli ecografisti.
Credo che i tempi siano maturi per rivedere il nostro concetto di Qualità. Un modo me lo ha insegnato lui, con il suo esempio, e a quanto pare è il caso che continui a insegnarmelo ancora.