Ho assistito di recente a un’allucinante programma di approfondimento preserale su La7 i cui ospiti d’onore erano Roberto D’Agostino e Oliviero Toscani. Adesso, uno può pensarla come vuole sui due personaggi e persino indignarsi se vengono chiamati in causa come testimoni informati sui fatti circa la congiuntura economica che sta strozzando il nostro paese, però c’è una cosa che voglio dire e voglio dirla usando lo stesso linguaggio da taverna di Toscani: francamente, dal profondo del cuore, mi sono rotto i coglioni di sentirmi dire che in questo paese manca la creatività, che non c’è spazio da nessuna parte per l’innovazione e per l’eccellenza, che siamo governati dalla mafia in tutte le sue possibili declinazioni, eccetera. Anche se l’affermazione, sostanzialmente, paradossalmente, potrebbe corrispondere a verità.
Per un breve periodo della mia vita mi sono trovato a frequentare una persona creativa: non capii mai che mestiere facesse nè lui lo specificò con precisione; sapevo che aveva a che fare con la musica e l’organizzazione di eventi musicali ma farei davvero fatica a essere più preciso di così. L’unica cosa certa è che avevo davanti un vero creativo: uno che si era potuto permettere il lusso di arrivare a un passo dalla laurea, litigare con il professore della tesi, piantare tutto in asso e cambiar vita (no, tranquillizzatevi, non sto parlando di D’Alema; il quale tutto è fuorché un creativo. E poi a me in barca viene il mar di mare: come a tutti quelli che, come diceva il mio vecchio primario, non sono nati ricchi). Insomma, il creativo, come tutti i creativi, era molto lunatico e alternava momenti di ostinato silenzio ad altri in cui il suo eloquio aveva le caratteristiche di un fiume in piena. Come con tutti i creativi, Oliviero Toscani in testa, era difficile seguirlo fino in fondo perché più che di un discorso con un capo e una coda spesso si trattava di una serie di frasi a effetto in cui l’elemento più importante sembrava essere l’inflessione del tono della sua voce, non so se mi spiego. L’unico concetto di senso compiuto che gli sentii esprimere con chiarezza, ai tempi in cui ancora gli albanesi e i polacchi ci bussavano alle porte, fu che non aveva senso ostinarsi a tenere chiuse le frontiere nazionali e che bisognava lasciar circolare persone e idee. Figuratevi io, che più o meno penso la stessa cosa ma al contrario di lui sono convinto che la splendida idea di abbattere le frontiere europee sia stata realizzata un po’ troppo in fretta, e che fino a che non si è culturalmente preparati per integrarsi, da ambo le parti, è meglio andarci cauti; ma questo è un altro discorso.
Il creativo, come tutti i creativi che conosco (e come anche Toscani nel programma televisivo, giusto per restare nel tema del post), staffilava giudizi molto netti sul mondo: il che, detto da uno che qualche anno fa aveva la triste fama di non cedere alla tentazione delle varie sfumature di grigio, è tutto dire. I suoi giudizi sull’Italia, dieci o quindici anni fa, erano dunque uguali a quelli di Oliviero Toscani oggi: l’assenza della creatività, lo stupro dei talenti, la mala politica e tutto ciò che ne consegue. Ma il problema, ve lo dice un altro creativo frustrato, non è questo. Io lavoro in una struttura pubblica. Mi occupo della salute delle persone, dunque in teoria di un argomento lontano anni luce da qualunque astratto concetto di creatività; anche se in realtà, e cerco di raccontarlo ogni giorno sul blog, ci si può guadagnare momenti di intensa creatività anche a fare il radiologo. Il mio problema, come dirigente pubblico, non è l’impossibilità di manifestare la mia creatività. Lo faccio ogni giorno, con alterni risultati, applicandomi a questioni molto differenti tra loro come la diagnosi di una malattia, l’organizzazione del pronto soccorso radiologico, la relazione che presenterò al prossimo congresso. Il mio problema, viceversa, è il tempo che viene sottratto alla mia creatività: progetti, controlli di qualità, riunioni-fiume, percorsi, tutte cose di cui devo occuparmi letteralmente rubando tempo al mio lavoro principale, la radiologia.
Ma attenzione, non sto dicendo che tutte quelle attività complementari siano inutili: sono anzi convinto del contrario, cioè che lo scambio delle idee porti a risultati eccellenti e che dieci teste ragionino meglio di una. Il guaio, che a quanto pare è un denominatore comune a tutte le realtà pubbliche o private in cui mi sono imbattuto, sta nelle modalità di espletazione di queste pratiche. La burocrazia, in Italia, non è come si crede comunemente il groviglio di leggi, leggine, commi, paragrafi in cui siamo avviluppati. La burocrazia giace invece inerme nelle mani del burocrate che non prende le decisioni dovute nei tempi dovuti ma cerca di passare ad altri la patata bollente o comunque di coinvolgerli fin dall’inizio in progetti in cui i collaboratori dovrebbero essere chiamati non alla costruzione dalle fondamenta ma alla revisione finale. Il dirigente ospedaliero, per definizione, i problemi dovrebbe conoscerli meglio di me che pure dentro l’ospedale ci lavoro dieci ore al giorno. Il burocrate ospedaliero dovrebbe propormi soluzioni, non cercarle da me: il mio contributo alla causa, smentitemi pure se sbaglio, dovrebbe essere la revisione della soluzione proposta, dire che questa cosa si può fare e per quest’altra invece possono sorgere difficoltà. Si riesaminerebbe il progetto insieme, ma almeno lavoreremmo tutti su una bozza già elaborata da una persona competente e capace: con il risultato di risparmiare tempo, fatica e creatività. Senza contare che la maggioranza dei problemi hanno la soluzione scritta nel loro stesso codice genetico.
Ma questo un creativo come Oliviero Toscani o come il mio vecchio conoscente altrettanto creativo di anni fa non possono saperlo. Per loro la burocrazia è un’entità mostruosa e priva di contorni precisi, che sovente si identifica con lo stesso concetto di Stato, dalla quale hanno avuto la fortuna o l’abilità di sottrarsi fin da giovani; per loro il giorno è lungo e poi, soprattutto, lavorano la maggior parte del tempo in algida solitudine intellettuale, dunque non avvertono lo sforzo continuo ed estenuante della mediazione, del compromesso, della costruzione solidale di qualcosa che trascenda il gruppo stesso. Ecco perché non voglio più sentirmi dire che in questo paese il guaio è la mancanza di creatività: io voglio che i cosiddetti creativi scendano con me in trincea, si sporchino anche loro le mani di merda, come faccio io ogni giorno, partecipino alle mie interminabili riunioni con colleghi di vario ordine e grado, siano costretti a guadagnare soluzioni ovvie a stupidi problemi quotidiani e poi a ritagliarsi momenti di creatività durante le notti insonni di guardia o nel gabinetto di casa propria, mentre i figli, se ce li hanno, reclamano a gran voce la loro presenza.