Ci sono ancora parecchi scatoloni chiusi in garage e nel solaio, dopo l’ultimo trasloco. È proprio da uno di essi che un giorno sono ricomparsi, dopo non so quanti anni, i pettini dei miei figli neonati.
Una spazzola morbida come i loro capelli, che erano i capelli biondi e sottili degli angeli. Pettini morbidi come la loro pelle profumata. Li lasciavamo sul mobile del bagno grande: accanto alle creme, al bagnoschiuma delicato, al contenitore dei pannolini, al fasciatoio che si trasformava nella minuscola vasca da bagno in cui ogni sera io e la mamma gli facevamo il bagnetto, bevendo a metà una birra fredda.
Lui nell’acqua se la godeva come un matto, batteva le mani sulla schiuma e non voleva mai venir fuori. Lei invece urlava per tutto il tempo, rossa in viso come un peperone, ignara del fatto che era nata in acqua, con la camicia, e da grande avrebbe nuotato come un pesciolino grazie alle spalle larghe e alle gambe forti che la natura le ha dato in dono. E anche del fatto che, se solo fosse stata strutturalmente meno pigra, tale e quale a suo padre, di quello sport avrebbe potuto fare una passione viscerale e forse persino un lavoro serio.
Ho guardato la spazzola e i pettini, poi ho guardato loro. Lui alto, dinoccolato, magro come un chiodo, col ciuffo biondo sulla fronte, serio come un ingegnere nucleare del dopoguerra (salvo quando è alla Playstation o alle prese con le strategie infernali di Clash Royale), imbarazzato dalla biologia mutevole del nuovo corpo che si è ritrovato da un giorno all’altro insieme alla voce profonda e cavernosa di un polifemo. Lei più minuta, biondissima, che ancora balla con me alle note della colonna sonora di La La Land, romantica come la protagonista di un film degli anni ‘60, già patologicamente dipendente dalle serie tivù, musicomane e quindi perennemente attaccata alle cuffiette, alla cassa di uno stereo, a qualsiasi cosa emetta una suono ascoltabile.
Li guardo e mi sembra un miracolo essere arrivato con loro fino a qui. Li guardo e ho l’istinto irrefrenabile di farmi da parte, sedermi e guardarli vivere. Sperando, ma vanamente, che la vita risparmi loro gli inciampi, le cadute, i lividi, le ginocchia sanguinanti.
Perché possiamo ripetercelo fino alla nausea, noi genitori, che si cresce solo attraverso le sofferenze. Ma poi, alla resa dei conti, nulla ci rende più felici di vederli dormire tranquilli, come se il domani fosse già cosa fatta.
La canzone della clip è Brave, della fascinosissima Sara Bareilles, dall’album The blessed unrest (2013). È coraggio, quello che ci serve per affrontare il casino, il coraggio della paura.