Tu sei proprio la parte di me che non posso lasciare andare

di | 27 Dicembre 2021

Io non sono mai stato tra chi ha stigmatizzato i medici che scelgono di lavorare nel privato. È una scelta legittima, onesta. A volte una scelta obbligata, se si hanno problemi personali di un certo tipo. In alcuni centri privati si lavora bene come in ospedale, a volte persino meglio. E oggi come oggi, inutile negarlo, la scelta di lavorare in privato è più vantaggiosa sotto molti punti di vista, primo tra tutti quelli economico. Ma c’è un punto, uno solo, che sull’argomento non mi va giù. E oggi voglio parlare proprio di quello.

Di recente uno dei consulenti esterni che collaborano col mio reparto, in questo tempo di vacche magre, chiacchierando con una collega le ha chiesto: “Ma tu che ci fai in questa palude?”

“Palude”, nell’accezione adoperata dal libero professionista in questione, riferita all’ospedale pubblico, è un termine chiaramente, indiscutibilmente, inequivocabilmente dispregiativo. La palude è per definizione un luogo malsano, lurido, sterile. La palude bisogna evitarla, nasconde l’insidia delle sabbie mobili, il pericolo mortale della malaria. Una palude, per definizione è abitata dagli orchi. Non dagli uomini.

Peccato però che, in questo caso specifico, il termine “palude” significhi anche tante altre cose. Per esempio.

La “palude” è quel luogo in cui da studente universitario sognavo, un giorno più o meno lontano, di poter lavorare: l’ospedale. Da quando misi piede per la prima volta in un’aula universitaria, per la lezione di chimica, il mio sogno è sempre stato quello. Anche quando ancora non sapevo cosa avrei fatto da grande (l’internista, il chirurgo o se, come poi è successo, altro), ero certo che sarei stato un medico ospedaliero. Appena assunto in ospedale, nel 1999, provai un lungo brivido di gratitudine mista a orgoglio personale: ce l’avevo fatta, ero proprio nel luogo dove avevo deciso di arrivare. Nessuno, all’epoca ne ero certo, avrebbe mai potuto allontanarmi dall’ospedale.

La “palude” mi ha permesso di sostentarmi dignitosamente grazie a un mestiere che non ho mai smesso di amare. Mi ha messo al fianco di colleghi capaci di insegnarmi il mestiere, prima di ogni altra cosa, ma spesso anche a vivere. Mi ha consentito di conoscere centinaia, migliaia di pazienti a cui forse sono riuscito a fare del bene, e dai quali certamente ne ho ricevuto altrettanto. 

La “palude” mi ha garantito una formazione e una crescita culturale adeguate alle circostanze. Mi ha fatto diventare così bravo in quello di cui mi occupavo da essere chiamato a parlare in giro della mia esperienza lavorativa, e a condividerla con gli altri colleghi di ogni parte d’Italia.

La “palude” è quel luogo in cui coloro che adesso la disprezzano, in tempi non sospetti, al pari dei loro padri e nonni medici, avrebbero dato via un rene per poter lavorare. In tempi non sospetti gente del genere ha accettato qualsiasi, e dico qualsiasi, tipo di compromesso pur di ottenere la fatidica assunzione a tempo indeterminato in ospedale, uno qualunque, anche il più micragnoso. Dite che adesso però l’ospedale è una palude e non conviene più sbattersi per sguazzarci dentro? Può essere. Ma attenzione: che la ruota, per sua stessa natura, gira.

Tutto questo non basta a rendere l’ospedale un luogo degno di essere vissuto? Evidentemente, al momento attuale, no. Perché è chiaro: non tutti hanno scelto di fare i medici per passione. Magari qualcuno ha dovuto per insistenze familiari, perché aveva il padre e il nonno, zii e cugini a loro volta medici. Qualcun altro per il miraggio del buon guadagno o della posizione sociale. Qualcun altro ancora la passione l’ha persa per strada: ricordo ancora le parole terribili di un anestesista, durante una lunga notte di guardia. Aveva uno sguardo infinitamente triste mentre pronunciava queste parole: “Non riesco a smettere di maledire il giorno in cui ho scelto di fare questo lavoro”.

Tuttavia, quale che sia il motivo, non tutto può ridursi a una questione di soldi. E la mera questione economica non può mettere nessuno nella condizione di stigmatizzare la scelta di un collega ancora convinto che il mestiere del medico non si riduca nel fare più soldi possibile con meno sbattimenti possibile, ma abbia a che fare con la cura del prossimo, la costruzione di rapporti duraturi sul luogo di lavoro, la crescita personale come medici e come individui. Anche perché il giorno in cui tutti costoro avranno bisogno di cure mediche urgenti per se stessi, i loro genitori e figli, gli amici più cari, non li porteranno nei loro studi scintillanti e iperaccessoriati, dove il 95% degli esami sono negativi e si guadagna il triplo che in ospedale. Li porteranno nella palude: che puzza di marcio, certo, ma ha il pregio non secondario di salvare la pelle alle persone che stanno davvero male.

Nelle polemiche degli ultimi mesi tra medici pubblici e privati i secondi hanno chiesto a gran voce rispetto per le proprie scelte. A me sta bene, alcuni di loro sono tra i miei migliori amici e ho grande stima nelle loro capacità, professionali e umane. Ma il rispetto deve essere reciproco, necessariamente reciproco, altrimenti finisce a schifìo. Anche se poi, a ben pensarci, rischiamo che finisca a schifìo lo stesso. Perché questo stato delle cose, alla fin fine, sta bene a tutti: ministri, politici, sindacati, e forse anche ai medici stessi.


La canzone della clip è “Hard to say I’m sorry”, dei Chicago, dall’album “Chicago 16” (1982). Molti anni fa, molti lenti fa.

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